Antonio Segni

SEGNI, UOMO SOLO TRA SCIABOLE E GENERALI GOLPISTI

La Dc sostiene la candidatura di Antonio
Segni non in contrapposizione, ma in
parallelo con quella di Giuseppe Sara-
gat”. Per la quarta battaglia all’ombra
del Quirinale, a fine aprile del 1962, il segretario
democristiano Aldo Moro partorisce una delle sue
formule più fumose – la candidatura parallela ma
non contrapposta – che fa il paio con le “conver -
genze parallele” di due anni prima. Quello, d’al -
tronde, è tempo di equilibrismi, politici e verbali.



Il 2 marzo è nato il quarto governo Fanfani, for-
mato da Dc, Psdi e Pri con l’appoggio esterno del
Psi: l’anticamera del tanto discusso centrosinistra.
La destra democristiana, cioè quella vasta palude
che i giornali chiamano “dorotea”, è in preda alle
convulsioni. Ma in quel partito nessun ostacolo è
insormontabile. Basta pagare. E i dorotei, al con-
gresso di gennaio, in cambio del loro assenso alla
svolta a sinistra invocata da Fanfani, hanno pre-
teso e ottenuto la candidatura ufficiale al Quiri-
nale del loro leader indiscusso: Antonio Segni.
Classe 1891, sassarese, Segni è il tipico gentiluo-
mo di campagna: nobile di nascita – la famiglia ha
lombi di sangue ligure –, ma popolare per voca-
zione, è entrato giovanissimo nell’Azione catto-
lica e nel Ppi di don Luigi Sturzo, segnalandosi per
la linea dura contro il fascismo. Docente di diritto
a Perugia, Sassari e Roma, è tra i fondatori della
nuova Dc, poi nel 1946 padre costituente e in se-
guito ministro dell'Agricoltura chiamato da De
Gasperi a realizzare la storica riforma agraria.
Conservatore, certo, ma con una vena di rifor-
mista. È stato due volte presidente del Consiglio e
ora – nel governo Fanfani IV – è ministro degli
Esteri. Dopo l’accordo congressuale tra destra e
sinistra Dc, nessuno sembra potergli insidiare la
successione a Giovanni Gronchi.
Ma i patti, soprattutto in piazza del Gesù, sono
fatti per essere infranti. E quando, il 30 aprile, alla
vigilia del voto a Camere riunite, i gruppi par-
lamentari scudocrociati si contano, ecco riemer-
gere le solite spaccature e imboscate. Con Segni si
schierano i dorotei e le altre correntine moderate.
La sinistra interna sfodera addirittura tre soluzio-
ni alternative: Gronchi-bis (sponsorizzato dal
presidente dell'Eni, Mattei), Attilio Piccioni e il
sindacalista Giulio Pastore, mentre qualche fan-
faniano propone addirittura il socialdemocratico
Giuseppe Saragat pur di silurare il candidato uf-
ficiale e tirare la volata all’Amintore.
In testa ma senza voti
Alla fine Segni la spunta, ma per un pelo. E quando
le Camere cominciano a votare, il 2 maggio, gli
effetti della lacerazione sono subito evidenti. I so-
cialcomunisti si riversano come un sol uomo su
Saragat, mentre la Dc si frastaglia in ordine sparso.
Nei primi sette scrutini Segni è, sì, il primo della
graduatoria, ma non raggiunge mai la maggioran-
za assoluta. E dire che sul suo nome sono confluiti
anche i liberali e, dopo la sesta tornata, anche mo-
narchici e missini (che peraltro avevano appog-
giato il suo secondo governo, procurandogli l’odio
eterno della sinistra Dc). Lo stallo minaccia di du-
rare in eterno. A quel punto, il 6 maggio, Saragat
propone di congelare la propria candidatura e
quella di Segni a vantaggio di un terzo uomo, can-
didato “di pacificazione”: il presidente della Ca-
mera Giovanni Leone. Moro ci starebbe pure, ma i
dorotei e la destra del partito (Scelba e Andreotti)
no: minacciano addirittura la guerra al governo
Fanfani. Il quale, terrorizzato dall’idea di perdere
la poltrona, capitola e ripiega sull’odiato Segni: co-
me sette anni prima, quando aveva dovuto abban-
donare Merzagora per Gronchi. La svolta “uni -
taria” o quasi è propiziata anche da una telefonata
del cardinal Giovanni Battista Montini, futuro
Paolo VI, buon amico e grande estimatore dello
statista sassarese. E così fa capolino nella corsa al
Quirinale un’altra pessima abitudine della politica
italiana: l’ingerenza del Vaticano. È anche grazie a
queste pressioni che, per la prima e ultima volta
nella storia repubblicana, la Dc riesce a mandare al
Quirinale il suo candidato ufficiale.
Tocca ad Arnaldo Forlani, giovane delfino del
presidente del Consiglio, il compito di portare la
notizia rassicurante a Segni nella sua casa di via
Sallustiana: finalmente la Dc voterà compatta per
lui. Il leader sardo, però, non si fida: vuole sen-
tirselo dire dalla viva voce di Fanfani. L’incontro
fra i due carissimi nemici si chiude con un ab-
braccio. La sera stessa di quella domenica 6 mag-
gio, all’ottavo scrutinio, Segni manca il quorum
per appena quattro voti. Ormai è chiaro che sarà
lui a farcela e si passa subito alla nona votazione.
Così in fretta che i commessi non fanno neppure
in tempo a distribuire tutte le schede. Un deputato
Dc, ancora sprovvisto della sua, si fa passare quel-
la del vicino di banco, già compilata col nome di
Segni. Nulla di grave, ma Sandro Pertini – im -
bufalito per l’ormai imminente sconfitta delle si-
nistre – fa cenno ai socialisti di abbandonare l’aula
e grida al broglio: “Camorra, camorra!”. Putiferio
nell’emiciclo, sospensione di due ore.
Profittando della pausa, Palmiro Togliatti incontra
a quattr’occhi Leone per offrirgli tutti i voti della
sinistra, lasciandogli intendere che Moro è pronto a
portargli quelli di metà della Dc. Ma Leone rifiuta
l’inciucio e riconvoca l’assemblea per lo scrutinio
numero 9-bis. Segni finalmente è eletto, sia pure
con una maggioranza risicatissima e con l’apporto
determinante di monarchici e missini: 51.8%, ov-
vero 443 voti su 842, contro i 334 di Saragat (più 51
schede bianche). I due concorrenti, vicinissimi nel-
l’ordine alfabetico, si incrociano al momento del
voto. E, dopo vent’anni di amicizia, voltano lo
sguardo dall’altra parte per non doversi salutare.
Per la prima volta gli italiani possono assistere allo
spoglio in diretta televisiva: a molti deve apparire
interminabile il rituale del presidente Leone che,
con smaccata inflessione napoletana, legge “bian -
ga”, “bianga”, “Segggni”, “Saragatte”... I parenti
del nuovo presidente racconteranno che Anto-
nio, dalla notte della sua elezione, ha perduto per
sempre il sonno e l’appetito. Ma lo choc più forte
lo subisce, al momento della proclamazione uf-
ficiale, il suo giovane aiutante di campo, sassarese
come lui, che ha temuto fino all’ultimo il cecchi-
naggio dei franchi tiratori: quando scatta l’ap -
plauso per l’elezione del nuovo Presidente, sviene
in corridoio come una pera matura. Il suo nome è
Francesco Cossiga.
Il messaggio d’insediamento di Segni è l’esatta an-
titesi di quello gronchiano di sette anni prima.
“Non tocca a me – avverte l’11 maggio – deter -
minare gli indirizzi politici nella vita dello Stato,
prerogativa questa che spetta al governo e al Par-
lamento”. A queste parole l’aula si lancia in una
corale ovazione, che suona come un addio po-
lemico al settennato di Gronchi, costellato di for-
zature e deragliamenti costituzionali che avevano
trasformato il Quirinale in una sorta di Superpre-
sidenza del Consiglio. “A me quale capo dello Sta-
to – prosegue Segni – incombe il dovere di tutelare
l’osservanza della Costituzione e di operare affin-
ché sia garantita nella forma e nello spirito del-
l’attività dello Stato l’unità morale e civile della
Nazione...”. E pare che parli a nuora perché suo-
cera intenda. La sua missione è chiara: traghettare
l’Italia verso il centrosinistra (che Segni ritiene or-
mai ineluttabile) nel modo più indolore e vellu-
tato possibile. Ma, lungi dalle invasioni di campo,
il suo stile presidenziale sarà improntato al più
sobrio rigore, lontano mille miglia dallo sfarzo in-
vadente ed esibizionista del predecessore. Anche
la first lady, donna Laura Carta, se ne starà al suo
posto senza ostentazioni né vistosità.
Il quarto presidente della Repubblica italiana è un
uomo solo, e lo diventa ancor di più quando varca
il portone del Quirinale. Lo tocca con mano quan-
do il Parlamento accoglie nella più assoluta indif-
ferenza il suo splendido messaggio che invita a ri-
formare la Costituzione per escludere la possibilità
del doppio mandato quirinalesco. Forse, se fosse
stato meno solo, si sarebbe pure capito qualcosa di
quel che accadde tra lui e il generale De Lorenzo
nella nebulosa vicenda del presunto golpe tentato
dall’ufficiale, nel 1964, curiosamente ribattezzato
“Piano Solo”. A rivelarla, cinque anni più tardi, sa-
ranno Lino Jannuzzi ed Eugenio Scalfari in un ce-
lebre scoop sull’E s p re ss o . Vero o falso?
Quel che è certo è che il 26 giugno 1964 il primo
governo di centrosinistra organico, capitanato da
Moro, è costretto a dimettersi. La crisi ristagna per
un mese e più, senz’alcuno spiraglio di sbocco ver-
so un’alleanza alternativa. Terrorizzato dall’idea
di dover rimandare alle Camere un governo senza
maggioranza precostituita, col rischio che le de-
stre vi si insinuino per mandare a monte il rap-
porto tra Dc e Psi, come già era avvenuto nella
drammatica rivolta popolare contro il governo
Tambroni (Dc-Msi), Segni manda a chiamare il
colonnello Giovanni De Lorenzo. Già capo dei
servizi segreti, poi comandante dell’Arma dei Ca-
rabinieri, da poco capo di Stato maggiore dell’E-
sercito, molto influente anche su Gronchi, il “ge -
nerale col monocolo” è convocato alle prime av-
visaglie della crisi (inizio maggio), per rispondere
a una domanda precisa: le Forze Armate sareb-
bero in grado di scongiurare una nuova e più am-
pia rivolta di piazza scatenata dal Pci? Quel che ne
segue – la risposta dell’alto ufficiale, le eventuali
intese col Presidente, le successive mosse di am-
bienti militari più o meno all’insaputa del Qui-
rinale – resterà avvolto nel buio. Probabile che,
profittando delle eccessive apprensioni di Segni e
spendendo (o millantando) il suo nome, De Lo-
renzo abbia ampiamente travalicato dal suo man-
dato. Sta di fatto che, in gran segreto, nei giorni
successivi predispone un piano (detto in codice
“Solo”, perché scritto solo da lui o perché prevede
l’intervento dei soli Carabinieri) che, se non è un
golpe, molto gli somiglia: militari provvisoria-
mente al potere, deportazione di 731 politici e sin-
dacalisti di sinistra (gli “enucleandi”) nella base
Nato sarda di Capo Marrargiu, occupazione della
Rai e dei giornali di sinistra. Il 10 maggio, quando
lo presenta al Presidente, questi ne rimane pro-
fondamente turbato. Storici e giornalisti, come
Giorgio Galli e Indro Montanelli, si diranno con-
vinti che Segni non avesse alcuna intenzione gol-
pista, ma accarezzasse l’idea di usare il colpo di
Stato come spauracchio per indurre i partiti a usci-
re dall’impasse e retrocedere dal centrosinistra.
L’epilogo drammatico
Di sicuro c’è che, dopo quelle settimane dram-
matiche, Segni non è più lo stesso. Assillato dai
problemi dell’ordine pubblico e dalla crisi eco-
nomica, facilmente impressionabile a ogni stor-
mir di fronda, si commuove come un bambino al
solo assistere a una sfilata di carabinieri e si cir-
conda di consiglieri quantomeno discutibili. Ad
alimentare la leggenda del presidente golpista
contribuirà la percezione a una famosa cena in
casa del moroteo Tommaso Morlino: vi parteci-
pano De Lorenzo, il comandante Cossetto (uomo
di fiducia del presidente), il capo della polizia Vi-
cari, il segretario Dc Rumor e il premier dimis-
sionario Moro. Si discute dell’ordine pubblico e si
conclude che la situazione è tranquillizzante. Ma
a Pietro Nenni – così almeno dirà il leader so-
cialista alla commissione d’inchiesta sui fatti del-
l’estate ‘64 – viene comunicata una versione al-
larmantissima, per forzare la mano ai socialisti
affinché – vista l’emergenza – abbassino le pretese
e tornino al governo rinunciando alle pregiudi-
ziali per le quali l’avevano rovesciato. Nenni dirà
di aver avvertito in quei giorni “un tintinnar di
sciabole”: in pratica, aria di golpe.
A ciò si aggiunge quel che accade nella tragica sera
del 7 agosto: mentre colloquia burrascosamente
al Quirinale con Moro e Saragat, Segni viene colto
da un gravissimo malore. Fuori dalla porta, qual-
che testimone dirà di aver sentito i tre urlare e
Saragat minacciare il presidente di trascinarlo da-
vanti all’Alta Corte di Giustizia. Saragat smentirà,
ma quella sera qualcosa di tragico forse accade.
Sta di fatto che i commessi, quando si aprono le
porte, vedono Segni quasi esanime tra le braccia
di Moro e di Saragat. La diagnosi dei medici è:
“Malessere dipendente da disturbi circolatori e
cerebrali”. Una trombosi che lo immobilizzerà
per il resto della sua vita, lasciandolo in uno stato
di parziale incoscienza fino alla morte, avvenuta
nel 1972.
Il momento è così delicato che il vertice Dc, fatta
siglare la dichiarazione del suo stato di inabilità
temporanea dai presidenti del Consiglio e delle
Camere (quello del Senato, Merzagora, assume
l’interim sino a fine anno), decide di attendere
quattro mesi prima di avviare le procedure per
eleggere il nuovo presidente. Segni resta congelato,
quasi imbalsamato dal suo stesso partito fino al 6
dicembre, quando finalmente gli vengono fatte fir-
mare le dimissioni. Si chiude così, dopo due anni e
mezzo, l’avventura del quarto presidente. Il più so-
lo e sfortunato della storia della Repubblica.


Marco Travaglio - Il fatto quotidiano 12/4/2013

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