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Il re non sa più quel che dice?
“Napolitano – si legge sul Corriere – vorrebbe che i fatti valessero anche per la bufera rinfocolata (da chi? come? boh, ndr) su amnistia e indulto. Lui – ha insistito da subito (dove? quando? come? mah, ndr) – non ha fatto alcun messaggio alle Camere per l’amnistia, ma un messaggio per la questione carceraria”. Ah, beh, allora cambia tutto. Resta da individuare il burlone che ha infilato nel messaggio alle Camere sulla questione carceraria la parola amnistia per ben 11 volte e la parola indulto per ben 13, insieme a frasi tipo: “la prima misura su cui intendo richiamare l’attenzione del Parlamento è l’indulto” e “al provvedimento di indulto, potrebbe aggiungersi una amnistia”. Parole che avevano fatto ingenuamente pensare a coloro che “stanno ai fatti” a un messaggio per l’amnistia e l’indulto. Invece era tutto un equivoco: il Presidente scherzava, non vuole né l’amnistia né l’indulto. Del che bisognerebbe prontamente avvertire il premier Letta e i ministri Bonino, Franceschini e Lupi, opportunamente selezionati ieri per assestare la meritata dose di legnate al malcapitato di turno (Renzi), reo di dissentire su amnistia e indulto e di ritenere financo che la carica il capo dello Stato non sia cumulabile con quelle di segretario del Pd e di capo del governo, del Parlamento, dei giudici e della stampa. Dal monito luogotenenziale trapela poi “l’amarezza di Napolitano per le critiche” sulla controriforma dell’articolo 138 della Costituzione e sullo sgorbio partorito dai 38 “saggi” di Letta e di governo.
Essi furono nominati non si sa come né perché dal governo e revisionati da Napolitano, che ne tolse qualcuno e ne aggiunse qualcun altro, poi li ricevette tutti insieme in una festosa cerimonia al Quirinale, con ministro Quagliariello a capotavola, molto simile alle adunate degli Accademici d’Italia a Palazzo Venezia dinanzi al Duce. Il primo destinatario dell’“amarezza” è Gustavo Zagrebelsky, unico presidente emerito della Consulta che abbia osato sollevare obiezioni: il monito luogotenenziale lo invita caldamente a “non chiamare in causa il Presidente, perché non è lui che elabora le riforme” (ha trovato dei prestanomi). E soprattutto a “rileggersi tutto l’insieme” dei “documenti agli atti della storia repubblicana” (niente di meno). E di non farlo così, en passant, ma “con freddezza e onestà”. Tocca dunque sorbirsi tutte le pippe dedicate alla riforma costituzionale non solo da Napolitano (omettendo, per carità di patria, i solenni giuramenti sul no alla rielezione), ma anche dai suoi predecessori fino a Scalfaro (che peraltro il 138 voleva rafforzarlo, non scassinarlo).
Cossiga meglio di no: si potrebbe scoprire che Napolitano ne chiedeva l’impeachment (come oggi fa Grillo con lui) perché parlava troppo e picconava la Costituzione su cui aveva giurato. E, sempre “stando ai fatti”, verrebbe da domandarsi cosa direbbe Napolitano di questo presidente della Repubblica, se non fosse lui.
Tratto dall'editoriale di Marco Travaglio del 15 ottobre su Il Fatto Quotidiano
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