Il significato e il valore della legalità



Scritto con tutta probabilità nell’estate del 1944, quando Piero Calamandrei fece ritorno nella sua Firenze liberata, il saggio che Laterza ha pubblicato in questi giorni nasce dall’esigenza che l’autore ebbe fortissima di spiegare a chi cercava faticosamente di fare nascere un’Italia libera, il significato e il valore della legalità.
Lo rivela Calamandrei stesso in una pagina, condita di fine arguzia fiorentina, che Silvia Calamandrei ha ritrovato fra le carte del padre e ha saggiamente riproposto nella sua bella “Nota editoriale”, dove chiarisce che il saggio può essere un esempio del metodo della prova a contrario, consistente nell’illustrare i caratteri della legalità e i suoi benefici trattando di un regime che rappresenta in maniera tipica la sua antitesi: “se in mezzo a tanto dolore fosse ancora lecito sorridere verrebbe a proposito la sbrigativa risposta colla quale un giornalista spiritoso si liberò di quel seccatore che insisteva a chiedergli come è fatta una macchina linotipo: ‘Ora te lo spiego subito: l’hai mai vista una macchina da cucire? Certo. Ecco: la linotipo è tutta differente’. Allo stesso modo si potrebbe rispondere a chi volesse farsi un’idea esatta della legalità: ‘L’hai mai visto il fascismo? Ahimè sì. Ecco: la legalità è tutta differente’.
Il regime fascista, spiega Calamandrei, era caratterizzato da una doppiezza o ipocrisia costitutiva. Il potere fascista nasceva infatti dalla combinazione di due ordinamenti giudiziari l’uno dentro l’altro: quello ufficiale, che si esprimeva nelle leggi, e quello ufficioso, che viveva in una pratica politica sistematicamente contraria alle leggi. C’era dunque una burocrazia di Stato e una burocrazia di partito, pagate entrambe dagli stessi contribuenti, e unite al vertice in colui che domina l’una e l’altra.
DAL SAGGIO emergono altri due caratteri distintivi della storia del fascismo, sui quali è bene riflettere. Il primo è l’incoerenza e l’eterogeneità dei suoi obiettivi politici, un vero e proprio “accozzo di idee vaghe e generiche accattate alla rinfusa nei campi più disparati e più contrastanti” che tuttavia non indebolirono, ma rafforzarono, il movimento e il regime. Il secondo è la gravità degli errori commessi dagli antifascisti, primo fra tutti quello di ritenere che la lotta dovesse essere condotta, nella stampa e in parlamento, sul terreno della legalità, alimentata “dalla generosa illusione […] della libertà che si difende da sé, come una forza di natura, senza bisogno di guardie armate”.
Una volta consolidato grazie al suo potente apparato di coercizione e di propaganda, il regime che si proponeva di “attuare la perfetta fusione del cittadino nella patria ed esaltare nell’individuo il sentimento del dovere e della dedizione al bene pubblico” ha rafforzato nell’animo degli italiani il secolare sentimento di diffidenza e di ostilità verso lo Stato. Imponendo il marchio ‘fascista’ su tutte le istituzioni che erano semplicemente italiane (lo “Stato fascista”, la “patria fascista”, la “scuola fascista”, la “guerra fascista”, quando addirittura non si parlava della “guerra di Mussolini”) il fascismo confermò nel popolo la convinzione che “chi non era fascista non aveva più ragione di sentirsi affezionato a istituzioni e a imprese, diventate, da italiane, proprietà esclusiva di quel solo partito o di quel solo personaggio”. Dare vita a regimi caratterizzati da una doppiezza costitutiva che genera e conferma la diffidenza verso le istituzioni, è specialità italiana. Silvio Berlusconi, con il suo stuolo di cortigiani e cortigiane, per citare un esempio dei giorni nostri, ha potuto per anni fare i propri interessi e affermare la sua volontà serbando le apparenze della Repubblica democratica. Matteo Renzi e i suoi sodali, se riusciranno a realizzare il loro progetto di devastazione costituzionale, creeranno un’autocrazia, vale a dire un governo di pochi senza freni e contrappesi degni del nome, sotto le apparenze, anche in questo caso, di un regime democratico. Ancora una volta istituzioni piegate al potere di un uomo, e non uomini che servono le istituzioni: l’esatto contrario dei principi repubblicani. E poi dicono che la storia non serve.


Maurizio Viroli

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