Mutatis mutandis

Siccome non c’è peggior tonto di chi non vuol capire, è tutto uno stracciar di vesti perché ultimamente diversi imputati eccellenti sono stati assolti o archiviati, dopo che i giudici e i giornalisti cattivi li avevano “rovinati” con la “gogna” mediatico-giudiziaria. La cosa viene presentata come una specificità tutta nostra, come se l’Italia fosse un paese modello tenuto in ostaggio da un pugno di moralisti e giustizialisti che si divertono a sputtanare una classe dirigente virtuosa e irreprensibile. Invece siamo il paradiso dei delinquenti, detentore del record europeo di corruzione ed evasione fiscale, dove 10 milioni di cittadini non pagano le tasse, tre o quattro regioni sono stabilmente in mano alla criminalità organizzata, i ricchi e i potenti rubano molto più dei poveri e dei deboli (che li mantengono) e la grande stampa fa da palo e regge il sacco. Ogni tanto i giudici acchiappano qualcuno e lo processano, con meccanismi talmente farraginosi e interminabili che alla fine nessuno si ricorda più chi era imputato e perché. Anche perché chi dovrebbe informare sui processi o non sa nulla, o trova più conveniente mentire su tutto.Prendiamo gli ultimi due assolti famosi: l’ex sindaco di Roma Ignazio Marino (Pd) e l’ex governatore del Piemonte Roberto Cota (Lega Nord). L’uno era sotto processo per aver pagato con soldi del Comune qualche decina di pranzi e cene con amici e parenti. L’altro per essersi fatto rimborsare spese private spacciate per “istituzionali”, compreso un paio di mutande verdi acquistato in un viaggio a Boston, per un totale di 25 mila euro. Il primo fu sfiduciato dal suo partito, che riunì i suoi consiglieri con quelli di Alemanno nello studio di un notaio, senza mai spiegare il perché (ora dicono che non sapeva governare, ma guardacaso lo scoprirono solo quando fu indagato). Il secondo restò al suo posto, ma dovette poi andarsene per tutt’altri motivi, cioè perché una lista sua alleata si era presentata alle elezioni con firme false. Cosa dicono le sentenze? Che Marino non ha mai cenato con parenti e amici a spese del Comune e Cota non ha accollato alla Regione Piemonte le mutande verdi e le altre spese private? Nossignori: tant’è che lo stesso Marino, quando scoppiò lo scandalo (scoperto dai 5Stelle e rivelato dal Fatto), restituì al Comune 20mila euro, cioè l’importo delle cene contestate; e Cota si difese dicendo che i rimborsi indebiti non li aveva chiesti lui, ma una segretaria distratta, a sua insaputa. In attesa delle motivazioni delle due sentenze, è ragionevole pensare che i giudici confermeranno i fatti.Ma diranno che manca l’“elemento soggettivo” necessario per le condanne per peculato: cioè il dolo, l’intenzione di sottrarre denaro pubblico. Dopodiché i pm decideranno se fermarsi lì o impugnare le assoluzioni, nella speranza di ribaltarle in appello. Ma tutto questo, per due politici e pubblici ufficiali, è secondario. Ciò che conta sono i fatti. Che nessuno dei due ha mai negato, anzi entrambi hanno ammesso, addossandoli a collaboratori sbadati e giurando sulla propria buona fede. Quei fatti sono considerati infamanti, dagli interessati e dai rispettivi partiti, a prescindere dalla rilevanza penale? Se sì, Marino se ne doveva andare ancor prima che il Pd lo cacciasse; e Cota pure, ancor prima che arrivasse il Tar a portarlo via per le firme false. Se no, dovevano restare (come fece Cota, che ora confonde volutamente lo scandalo delle note spese con quello delle firme false, unica causa della sua caduta, e vaneggia di “bugie” e “falsità per cacciarmi” e “rubarmi le elezioni”). La politica ha tutti gli strumenti per valutare autonomamente la gravità di uno scandalo: alla luce dei fatti già noti, non dei reati che spetterà ai giudici valutare, nei tempi biblici del processo all’italiana. Sia per Cota, sia per Marino, era lampante che alcune spese private le avesse pagate la collettività, e chi lo scrisse non ha nulla di che “scusarsi” (come chiedono i soliti tartufi), perché raccontò fatti veri. Ciò che non era chiaro era se i due avessero ordinato ai propri uffici di metterle in nota, o se avessero fatto tutto le loro segreterie.Nel primo caso, il fatto – di per sé poco commendevole – era anche un reato; nel secondo, era un errore che ricadeva anche su chi, rappresentante delle istituzioni, aveva scelto male i propri collaboratori e non aveva vigilato sulla netta separazione tra faccende pubbliche e affari privati (culpa in eligendo e in vigilando). Ma non occorre la prova di un reato per mandare a casa un pubblico amministratore: bastano le responsabilità politiche e morali. Purché valgano per tutti e non solo per qualcuno (vedi Marino). Ora invece tocca leggere gli sproloqui del solito Violante, che si fa intervistare dappertutto per tuonare contro “la subalternità della politica e della società civile alla magistratura” e la “società giudiziaria” composta da “cittadini comuni, politici, mezzi di comunicazione e settori della magistratura, che si basa sull’idea di fondo che la magistratura sia il grande tutore della vita pubblica”, finendo per “condannare alla gogna l’intero Paese” e per “distruggere reputazioni”. Ma di che va cianciando questo buontempone? Le reputazioni le rovinano i fatti, quando sono infamanti, non le indagini, quando c’è una corretta informazione. Alcuni fatti costituiscono reato ma non sono infamanti (tipo i delitti di opinione per eccesso di critica), altri non costituiscono reato ma sono infamanti lo stesso (cenare con gli amici o comprarsi mutande verdi a spese dei contribuenti, ma a propria insaputa). Se poi uno non vuole finire processato per rimborsi indebiti, non ha che da compilarsi le note spese da solo. Sennò magari il reato passa, ma la mutanda resta.

Marco Travaglio, Il Fatto Quotidiano, 9 ottobre 2016

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