L’iter - Agli enti locali tocca decidere dove farli. Ma manca la valutazione strategica
C’è una domanda che circola da più di un anno tra gli esperti del ciclo alternativo di rifiuti: perché mai si insiste così tanto a voler incenerire invece che pensare ad altre soluzioni? La risposta, suggeriscono, sta prima di tutto nella forma mentis. “Degli italiani?” chiede qualcuno. No, del ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti, che ha fondato (con relativa quotazione in borsa) la multiutility ambientale dell’Emilia Romagna, la Hera (che conta almeno 78 termovalorizzatori), e che quindi ha la pratica dell’incenerimento nel Dna. Non ha stupito, allora, il decreto del consiglio dei ministri pubblicato il 5 ottobre in Gazzetta Ufficiale che sancisce in modo definitivo – dopo un anno di polemiche e scontri con le Regioni – la realizzazione di otto inceneritori in tutta la penisola, di fatto annullando qualsiasi opposizione degli enti locali. Eccoli, uno dopo l’altro: uno in Umbria (capacità di 130mila tonnellate all’anno), uno nelle Marche (190mila tonnellate all’anno), uno in Lazio (210mila tonnellate all’anno), uno in Campania (300mila tonnellate all’anno). E ancora Abruzzo (120mila tonnellate all’anno), Sardegna (101mila tonnellate all’anno da impianti nuovi e 20mila da potenziamento) e due in Sicilia (690mila tonnellate all’anno). Per la Puglia, invece, il dpcm dispone di potenziare la capacità già esistente (70milatonnellate all’anno). In totale, la capacità da realizzare ammonta a 1,83 milioni di tonnellate all’anno.
La tesi del ministero dell’Ambiente è sempre la stessa: se non si bruciano più rifiuti, si rischia di andare in contro a procedure d’infrazione europee. Così, a fine 2014 (con il decreto Sblocca Italia) gli inceneritori sono stati indicati come “insediamenti strategici di preminente interesse nazionale”, lasciando poca voce in capitolo alle amministrazioni locali, alle Regioni (che avevano provato a far passare le loro condizioni durante la conferenza Stato- Regioni di gennaio, ottenendo solo la concessione di rivedere periodicamente l’esito dei piani della raccolta differenziata). Ora, dopo il decreto, l’iter è in un limbo: se le Regioni non hanno voce in capitolo sulla nascita e la morte dei termovalorizzatori, toccherà a loro decidere dove costruirli. Secondo il Rapporto preliminare presentato ad aprile dal ministero, infatti, non si può stabilire quanto il piano inceneritori incida sulle componenti ambientali. E quindi “non possono essere puntualmente determinati e calcolati effetti significativi sull’ambiente”. Questi elementi, insomma, secondo il ministero potranno essere valutati solo quando le Regioni avranno deciso dove realizzare con precisione gli inceneritori. Prima, non ci può essere neanche la Valutazione Ambientale Strategica (Vas) pretesa dagli enti locali. Quella che, a gennaio, la Commissione europea aveva indicato come “necessaria”. La questione non è chiusa, quindi. “È chiaro – aveva detto Galletti a febbraio – che questo piano parte dal presupposto che tutte le Regioni arrivino al raggiungimento degli obiettivi fissati dall’Europa, quindi che tutte le regioni arrivino al 65 per cento di raccolta differenziata e che tutte colgano gli obiettivi di produzione dei rifiuti del 10 per cento; fatto questo conteggio – aveva aggiunto – si individua ancora la necessità, del Paese in questo caso, di incenerimento: che equivale a otto termovalorizzatori”. Un ragionamento viziato da due elementi: il primo è che non si considerano i piani incrementali di differenziata nelle Regioni e si assume il 65 per cento come obiettivo massimo e non come obiettivo minimo. Il secondo è che le direttive europee che tanto teme Galletti impongono il pre-trattamento dei rifiuti e non il loro incenerimento. “Trattamenti fisici, chimici, biologici o termici”, recita la direttiva. L’incenerimento è solo uno dei quattro possibili. Ma l’unico indicato nel decreto.
Virginia Della Sala, Il Fatto Quotidiano, 23 Ottobre 2016
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