Capo Danno



Non è una bella confessione, questa. Ma dobbiamo proprio farla: non ci capiamo più niente. Per vent’anni abbiamo vissuto con la rassicurante impressione di capire tutto: tutta la politica italiana ruotava intorno a B., con i suoi affari, le sue tv, i suoi processi e il suo pisello. Era tutto chiarissimo: quando governava lui, si faceva i fatti suoi; quando governavano gli “altri”, gli facevano i fatti suoi (un po’ perché ricattati, un po’ perché intimoriti, un po’ perché corrotti, un po’ perché culturalmente succubi, un po’ per nascondere la coda di paglia di essere stati comunisti o craxiani o democristiani, un po’ per nascondere i fatti loro dietro i suoi). Ora non è che B. sia scomparso con tutto il cucuzzaro, anzi: lui sta formalmente all’opposizione, ma il governo difende come un sol uomo Mediaset dai terribili invasori francesi di Vivendi. Ma anche questo si capisce e si spiega: l’eventuale irruzione del libero mercato e della concorrenza nel mondo della tv, ultimo residuato del socialismo reale con i partiti che controllano l’etere e quello che l’attraversa, sarebbe peggio della rivoluzione proletaria. Una Mediaset in mano a un grande gruppo estraneo ai giochetti politici italioti investirebbe un sacco di soldi nei programmi, costringendo la Rai a fare altrettanto o a fallire, e i politici abituati a trattare gli studi televisivi come il salotto di casa dovrebbero chiedere per favore, e in francese, ciò che oggi ordinano nel loro italiano malfermo, con la seccatura di non possedere il numero di cellulare di monsieur Bolloré. Un incubo.
Però oggi gli affari di B. non sono più così centrali e determinanti per tutta la politica. Che, improvvisamente, è rimasta senza un baricentro. Dunque molto più incomprensibile. Anche perché, a furia di veder avvicendarsi governi nati in laboratorio, all’insaputa degli elettori, non si sa più a chi rispondano e dove vogliano andare. Prendete Gentiloni: che ci sta a fare a Palazzo Chigi? Personcina ben educata, per carità. Non strilla, non se la tira, non fa il ganassa, non dice parolacce, non sporca, non gioca col cellulare mentre parla coi capi di Stato e di governo, non insulta gli eventuali giornalisti che fanno domande vere. Ma, a parte il galateo – che, visti i precedenti, è già qualcosa – chi rappresenta? Alle primarie del Pd per il sindaco di Roma, arrivò terzo su tre, dietro Marino e Sassoli. E quando, partito quell’altro ectoplasma della Mogherini per Bruxelles, Napolitano e Renzi gli proposero gli Esteri, si voltò di scatto pensando che ce l’avessero con qualcun altro dietro di lui. Figurarsi quando Mattarella l’ha chiamato per fargli fare il premier.
Ora si ritrova a gestire la catastrofe Mps e altre patate bollenti, anzi marce, mentre quell’altro che le ha lasciate putrefare per un anno, per ricattarci col referendum (e straperderlo), scia fischiettando in Val Gardena. A parte la “continuità col governo Renzi” (bella roba) sussurrata in conferenza stampa, ma molto sottovoce per evitare le risate in sala, del suo programma si sa poco o nulla. A meno che qualcuno non prenda sul serio i soliti gargarismi sul Mezzogiorno, il lavoro, le riforme e i giovani (e i bambini? e gli anziani?), che sentiamo ripetere dai tempi del governo Rumor. Quanto alla durata, siamo a Monsieur de la Palisse: “Il governo c’è finché c’è la maggioranza”. Ma va? Si naviga a vista, senza bussola e senza meta. Il governo, il quarto non uscito dalle urne in cinque anni, è nato perché – dicono – votare subito non si poteva. Motivo: Camera e Senato vanno eletti con sistemi elettorali “omogenei”. L’ha detto Mattarella, cioè lo stesso che nel 2015 promulgò l’Italicum valevole solo per la Camera, nella speranza che gli elettori al referendum abolissero le elezioni per il Senato. Senato che una legge elettorale ce l’ha e Mattarella la conosce bene: la scrisse lui, come giudice costituzionale, nella sentenza n.1/2014 che spolpava il Porcellum (il Consultellum proporzionale). Se voleva due leggi omogenee, non aveva che da respingere l’Italicum per estenderlo al Senato.
Ora, correttamente, né lui né Gentiloni propongono nulla perché la legge elettorale spetta al Parlamento. Ma se Pd e Lega vogliono il Mattarellum, FI il proporzionale e i 5Stelle una legge qualunque pur di votare, almeno si potrebbero convocare i partiti perché mettano le carte in tavola. Attendere la Consulta, che il 24 gennaio non deve fare la nuova legge, ma solo decidere sulla legittimità dell’Italicum che a parole non vuole più nessuno (sempreché poi la Corte si pronunci davvero, su una legge mai usata), non ha senso. Anzi, uno ce l’ha: non farci votare mai. Già, perché se la Consulta non si pronuncia e i partiti non si mettono d’accordo, nel 2018 avremo ancora l’Italicum alla Camera e il Consultellum al Senato. E nel 2018 si deve proprio votare: o hanno in mente di rinviare sine die, in attesa di due leggi “omogenee”? Chi ha fatto il danno, cioè Renzi e Mattarella, dovrebbero dirci come si ripara. Mentre uno scia, l’altro potrebbe sussurrarci qualcosa già nel sermone di stasera.
Stasera, secondo gli aruspici, il presidente lancerà un monito contro la corruzione e per la legalità. Ottimo proposito. Ma con che faccia lo farà dopo aver benedetto un governo che ha un ministro, Lotti, indagato per favoreggiamento su una mega-inchiesta per corruzione, ha rinominato tre sottosegretari indagati (di cui uno, Castiglione, per corruzione elettorale in Mafia Capitale), i vertici della Consip indiziata di corruzione su un appalto da 2,7 miliardi e il capo dei Carabinieri sotto inchiesta con le stesse accuse di Lotti? Saranno pure ben educati, Mattarella e Gentiloni, noti anestesisti. Ma, come si dice a Roma, falli pure cafoni. Buon anno a tutti.
Marco Travaglio, Il Fatto Quotidiano, 31 dicembre 2016


Commenti