Non è la prima volta che lo dico: farsi convincere dalla propria stessa propaganda è un errore idiota, da comunisti. E si direbbe l’ultima cosa comunista rimasta da queste parti.
Il primo pensiero sulla Waterloo renzista è questo: la narrazione ha fallito. Era sbagliata. Era stupida. Offensiva. Disegnava scenari inesistenti di sorti luminose e progressive per coprire una realtà di crisi e sofferenza. Un leader sconfitto che dice “Non credevo che mi odiassero così tanto” (il Corriere, oggi) è un leader che parla solo coi i suoi servi, che visita solo le fabbriche degli amici finanziatori e non quelle in crisi, che delegittima sempre l’avversario, perdendolo per sempre, trasformandolo in un nemico.
Chi semina vento raccoglie tempesta.
Questo fatto di vedere in primo piano la débacle della narrazione – me ne scuso – è una specie di deformazione professionale. Ma di questo, sul mio giornale (e qui), mi sono occupato soprattutto in questo anno: segnalare la distanza tra lo storytelling renziano e l’Italia. Non si può dire che non li avevamo avvertiti, ecco.
In cambio, in cambio di quel “ehi, vi state sbagliando!”, sono arrivati insulti e contumelie, prima eravamo gufi, poi rosiconi perché Lui vinceva, poi (fascisticamente, le parole sono importanti) “disfattisti”. Irridere i lavoratori e i sindacati (il gettone del telefono…), sposare una modernità da startup un po’ pirata con il mito della velocità che trasforma i diritti in zavorre e le regole in fastidiosi condizionamenti. Questo è stato il renzismo, se gli levate le storielle dei narratori. E precariato alle stelle, lavoro mortificato, tasse mascherate, bugie vergognose, tagli alla sanità. Tutto il contrario di quello che narravano le loro favolette di “futuro” e “italiariparte” e “grande potenza culturale”. Il No al 51 sarebbe stato un “no grazie”, al 55 un “No, e piantala”, al 60 è un “No e vaffanculo”. Spiace che questa nobile espressione popolare sia diventata lo slogan di un partito che non mi è simpatico, ma sia: si certifica almeno che non c’è copyright sul vaffanculo.
Ci mancheranno le bischerate toscane, le foto in bianco e nero dell’agiografia ufficiale, gli slogan infantili dei cantori a tassametro, la malafede di quelli che “il segretario ha sempre ragione”. Tra questi – una prece – i giovinetti burbanzosi della “nuova politica”, ordinati e devoti come balilla al servizio del capo, storditi, oggi, nell’apprendere finalmente quanto (tanto) il capo fosse detestato. Ora assisteremo ai riposizionamenti, ai distinguo, ai “Io? Mai stato renziano”. E’ il momento di avere buona memoria.
Ma al di là di questo – che non è contorno ma nemmeno sostanza – c’è il più disastroso fallimento politico del dopoguerra italiano. L’idea di poter perdere i propri voti di sinistra (spacciando quella perdita per modernizzazione) perché tanto arrivano quelli di destra era un calcolo sbagliato. Berciare per anni sui giovani a cui le generazioni precedenti “rubano il futuro” e poi essere votati solo dalle generazioni precedenti e non dai giovani. Mettere in circolo il veleno della guerra tra generazioni e perdere pure quella. Sostituire diritti con regali pensando che la gente non se ne accorga. Andare a elemosinare voti e consensi con il peggior clientelismo possibile (i De Luca, il pellegrinaggio di Lotti dai capataz cosentiniani, i favori a banchieri e mercati, l’occupazione del potere in ogni angolo…).
Mi diceva un amico rumeno che ad ogni comparsa di Ceausescu, molta gente si avvicinava al leader con bigliettini che dicevano : grande leader, succede questo, sucede quello… Pensavano che lui non sapesse, lo credevano in buona fede, lo avvertivano. Con Renzi si è fatto lo stesso: lo si avvertiva che il paese di cui parlava non era quello reale. E lui – e i suoi – rispondevano a insulti.
Il fallimento politico del renzismo è il fallimento clamoroso, il crollo indegno, di un disegno che il paese non vuole. Il partito della nazione, una macchina statale più veloce e controllabile per favorire “la velocità dell’economia”, che significa piegarsi a regole decise nei consigli di amministrazione e non dalla politica e dalla democrazia. Tutto questo non va bene. A tutto questo è stato detto No. E proprio ora che c’è incertezza nel futuro si capisce bene che tenersi una Costituzione così, che ci ha salvato in larga parte persino da Berlusconi, è una cosa preziosa, da non stravolgere per il plebiscito di un singolo.
Il plebiscito c’è stato, comunque: 60 a 40 non è una sconfitta, è un disastro.
Ci sarà tempo di pensare a quello che è diventata l’informazione, grandi giornali, tutte le tivù, tutti schierati dalla parte della sconfitta bruciante, è un vaffanculo un po’ anche per loro. Ma non tanto sull’inchinarsi al potente di turno, quando sull’incapacità, anche loro, persino loro, di vedere il paese reale e di preferire le favolette belle della propaganda. Approfitto per dire che sono molto contento del mio giornale, Il Fatto Quotidiano, di chi ci scrive, di come ha condotto questa battaglia di autodifesa degli italiani.
Ora è il tempo di ricominciare a parlare di politica, non delle visioni lisergiche di un ragazzotto con problemi di ipertrofia dell’ego e dei suoi camerieri.
Via, e subito, e presto, anche dal Pd, se si vuole un partito vagamente di sinistra in Italia. E via subito anche i suoi uomini nei posti chiave, per evitare che un potere perdente si aggrovigli alle strutture e faccia ulteriori danni. Il paese che si voleva “velocizzare” ha perso un anno intero dietro alle paturnie di una sedicente classe dirigente, la più mediocre che si sia mai vista.
Della signorina Boschi non è il caso di parlare, questa singola riga è già troppo per il suo spessore.
E’ l’ora del “Che fare?”, ma siamo qui per questo, no?
E’ sempre l’ora del “Che fare?” se non ti va di essere suddito, ardito o balilla.
5 dicembre 2016, Alessandro Robecchi
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