L’anno della post-verità è iniziato il 12 luglio 2016. Quel giorno sul Guardian è apparsa una storia che a saperla leggere era in grado di predire il futuro. Donald Trump alla Casa Bianca per esempio, ma non solo. Si intitola “How technology disrupted the truth”, come la tecnologia ha distrutto la verità. Disrupt è un verbo particolare in inglese, da quando l’economista austriaco Joseph Schumpeter l’ha usato assieme al termine “innovation” per mettere in luce la forza “distruttiva” di certe innovazioni: da allora l’innovazione vera, quella in grado di cambiare il mondo e renderlo migliore, è sempre un po’ “disruptive”. Solo che questa volta ad essere “distrutta” dalla tecnologia è stata la verità. E il mondo non ci appare davvero granché migliore.
L’articolo del Guardian del 12 luglio porta la firma più autorevole del quotidiano britannico: Katharine Viner, al Guardian da 20 anni, divenuta direttore qualche mese fa dopo una carriera costellata di successi. Insomma, il top. Che diceva la Viner? Partiva da un fatto che molti di noi avranno dimenticato probabilmente. Anzi un non-fatto, una non-verità, che l’anno precedente aveva fatto parlare, e indignare, e sogghignare, il mondo. Era sulla prima pagina del quotidiano Daily Mail, il 20 settembre del 2015: il titolone diceva in sostanza che il primo ministro David Cameron da ragazzo, ad una festa universitaria, aveva commesso atti osceni con la testa di un porco ammazzato. Anzi il titolo prometteva di raccontare “come David Cameron prese parte ad un rito di iniziazione con un porco ammazzato”. C’era un testimone, diceva, che lo aveva visto infilare il pene nella testa del porco e c’era anche una vecchia foto che qualcuno da allora si era conservato.
Grazie ai social media lo scandalo del porco divenne subito globale, il “piggate”. Dopo un giorno intero, dopo milioni di tweet e condivisioni su Facebook di cui potete facilmente immaginare il tono, la giornalista che aveva firmato lo scoop è andata in tv e ha detto che in realtà non aveva alcuna prova, nessuna conferma e che lei stessa aveva dubbi che potesse essere vero. Ma l’aveva sentito dire e l’aveva scritto. Ed era diventato vero, per molti probabilmente ancora lo è. Anche se è una bufala, anzi una post-verità.
Come era stato possibile? Perché così funziona la rete. Anzi così funzionano le piattaforme social e il motore di ricerca di Google al quale tutti ci rivolgiamo come un oracolo e che in cima alla lista dei risultati non mette le risposta “migliore”, la “verità”, ma solo quella che ha avuto più link, più collegamenti da altri siti web; e se sei bravo in cima ci fai arrivare quello che vuoi, al punto che che se chiedi a Google se “Hitler era cattivo?” ti risponde con un sito che elenca i 10 motivi per cui era il dittatore dell’Olocausto era buono (qui l’eccellente inchiesta sempre del Guardian del 4 dicembre 2016). La verità è nelle mani del SEO, la Search Engine Optimization, le regole per ottimizzare i risultati su un motore di ricerca. Non sembrano ottime mani e giudicare dai risultati.
Ma così purtroppo funzioniamo anche noi. Condividiamo spesso senza leggere quello che troviamo nella nostra filter bubble, la bolla di argomenti che l’algoritmo Facebook ha selezionato per noi per compiacerci. Perché più siamo compiaciuti e più condividiamo. E’ maledettamente semplice, funziona così. E Facebook ci guadagna. Google ci guadagna. Il mondo mica tanto.
Non è una cosa nuova. E’ sempre accaduto che le persone si facessero una idea “sui titoli dei giornali”. Senza leggere gli articoli. E quindi per decenni l’opinione pubblica si è formata più sui titoloni che sulla realtà. Scandalizzarsi ora vuol dire non avere memoria. Ma adesso questa cosa ha dentro il motore potentissimo della rete: non ci limitiamo più a leggere un titolone e a parlarne in famiglia; lo condividiamo istantaneamente con il resto del mondo. Siamo diventati i megafoni delle esagerazioni. E spesso delle bufale che girano in rete fabbricate da siti specializzati, a volte solo per far soldi, altre per destabilizzare l’opinione pubblica.
Le smentite ci sono ovviamente ma non servono. In fondo non sono mai servite. Quando nei giornali scrivevi una cosa inesatta, a volte ti arrivava una lettera scritta a mano dopo 15 giorni. Destinazione cestino. Altre volte la richiesta di rettifica era più rapida e perentoria e finiva nella pagina delle lettere in due righe. Colpa dei giornalisti, allora. Ma anche oggi, nell’era digitale, che pure potrebbe dare forza a chi vuole ristabilire la verità dei fatti, chi dà peso alle smentite e alle rettifiche? Nel caso della corsa trionfale di Donald Trump, c’è un episodio illuminante. Che non riguarda la panzana dell’appoggio del papa al candidato repubblicano, o l’altra panzana dell’agente suicida mentre investigava la Clinton. Non riguarda insomma l’esercito di finti giornali, spesso con sede in Macedonia, che sparavano balle prefabbricate sui social media per mestiere.
Riguarda un tweet autentico, nel senso che è stato inviato in buona fede (qui la ricostruzione del New York Times). Lo ha mandato la mattina in cui Trump ha vinto un oscuro 35enne texano, Eric Tucker, 40 followers appena, praticamente è uno che su Twitter parla da solo. Eppure il tweet che ha mandato il 9 novembre alle 8 del mattino, è stato rilanciato 16mila volte e condiviso su Facebook oltre 300 mila volte. Che diceva? “I manifestanti anti Trump oggi a Austin non sembrano tanto spontanei come dicono. Ecco i bus che li hanno portati in città”. Come si poteva vedere dalla foto allegata. Una fila di bus sotto la pioggia. Inequivocabile. Gli americani veri non sono contro il presidente eletto, era il messaggio. Quelli che protestano li ha pagati e organizzati la Clinton. Che scoop. Tutti i siti web vicini a Trump hanno ripreso la notizia (“Hanno trovato i pullman!”), che è rimbalzata in tv e il giorno dopo persino il presidente eletto ha dedicato un tweet dei suoi ai “professionisti delle manifestazioni”. Nel frattempo però qualcosa era successo: Eric Tucker si era informato meglio, aveva scoperto che i bus erano stati affittati da una grande compagnia di software per una convention che aveva portato in città 13 mila persone. E correttamente lo aveva detto: il giorno dopo in televisione, quando lo hanno chiamato per intervistarlo, lo aveva detto. Impatto zero. Allora anche la società di software aveva fatto un comunicato per spiegare l’equivoco, ma la valanga non si era fermata. “Hanno trovato i pullman!”. Infine Tucker ha provato a fermare il tempo, a ripartire daccapo e ha fatto un altro tweet, che diceva più o meno: “Quello che ho scritto è falso, scusate, mi sono sbagliato”. Numero di persone che hanno rilanciato la sua smentita? Ventinove. Non ventinovemila. Ventinove. Non interessava più nessuno. Se ancora oggi andate su Google, davvero il 9 novembre dei manifestanti pagati dalla Clinton sono andati a Austin, Texas, per protestare. Davvero, nel senso che è una post verità.
La verità, lo sappiamo, è un concetto complesso, che sconfina nella filosofia e nella religione. Ma se fai il giornalista la post-verità è il tuo avversario perché è semplicemente una verità senza fatti. Cioè fondata su un presupposto che non esiste ma che molti considerano vero. E quindi in un certo senso lo diventa perché le persone si comportano come se lo fosse. Non è un concetto nuovo. “La scomparsa dei fatti” è il titolo di un libro di Marco Travaglio del 2006 che allora contestava la mancanza di fatti per contrastare la narrazione, oggi diremmo lo storytelling, di Silvio Berlusconi presidente del Consiglio. E non c’erano ancora Facebook e Twitter…
Ma volendo provare a guardare le cose in prospettiva, la post verità è sempre esistita. Nel secolo scorso era post verità la propaganda fascista e nazista per esempio, come lo era la propaganda sovietica. E analizzando il caso Trump i giornalisti americani (lo ha fatto Quarz per la precisione) hanno osservato che forse anche il presidente Abramo Lincoln, due secoli fa, fu una delle prime vittime della post verità. Era il 1864, Lincoln si preparava alla campagna per essere rieletto, e un senatore democratico lo accusò di voler creare una super razza americana favorendo matrimoni fra bianchi e neri. Lo spunto era un pamphlet anonimo di 72 pagine che solo molto dopo le elezioni si scoprì era stato redatto dai democratici per mettere in difficoltà il rivale. Lincoln vinse lo stesso le elezioni, fu più forte dalla fake news che i rivali provarono a trasformare in post verità; chissà se sarebbe accaduto oggi con i social media. Forse no, forse avrebbe perso.
Se quindi la post verità non è nata improvvisamente nel 2016, è però nel corso di quest’anno che ha mostrato tutta la sua pericolosità. E questo non perché sia la causa della vittoria della Brexit al referendum, dell’elezione di Donald Trump negli Stati Uniti, della caduta di Matteo Renzi in Italia. Dirlo vuol dire provare ad affermare un’altra post verità perché quei tre fatti hanno piuttosto ragioni profonde di malcontento economico, diseguaglianza sociale e paura del futuro che la post verità si è limitata a cavalcare.
Ma che mondo è un mondo che si basa sulla post verità? Che mondo è un mondo che si muove sulla base di indizi falsi che rafforzano i pregiudizi? Che democrazie sono quelle dove l’opinione pubblica invece di essere informata viene deformata dalle bufale? E ancora di più: che mondo è un mondo che dibatte e si indigna e si mobilita per cose che non esistono (“Hanno trovato i pullman!”) e ignora la forza dei fatti anche quando i fatti sono il record di migranti morti nel Mediterraneo, la guerra a Mosul, la tragedia umanitaria di Aleppo e dei suoi bambini, il terremoto che sbriciola il cuore d’Italia, gli attentati terroristici nel cuore dell’Europa?
E’ un mondo che ha bisogno di giornalisti. Di giornalisti coraggiosi, scrupolosi, testardi. Di persone che hanno voglia di andare in fondo alle cose, che guardano cosa c’è dietro un tweet, che sanno decifrare le falle di un discorso politico, che sanno distinguere la propaganda dai numeri. Che non cercano di vincere con il web la gara della velocità o della quantità, ma quella della autorevolezza. E che ci riescono perché non provano ad imporre una opinione, ma a esporre tutti gli elementi affinché gli altri se ne possano formare una. E che quando lo hanno fatto, hanno il coraggio di dirlo. Non si chiudono nei siti web e nei giornali, ma vanno sui social a dirlo, come stanno le cose. Come ha fatto un cronista del Washington Post il 18 novembre. Donald Trump aveva mandato un tweet per far sapere al mondo di aver ricevuto una telefonata di Bill Ford che gli avrebbe detto che la fabbrica di Lincoln non sarebbe finita in Messico, ma sarebbe rimasta in Kentucky (Che colpo! Che notizia!). Un’ora dopo Jim Tankersley, un giornalista del Washington Post, su Twitter ha risposto che la Ford non aveva in programma di chiudere la fabbrica del Kentucky per riaprire in Messico, ma solo di spostare una linea produttiva e che la cosa non è cancellata ma sospesa. Punto.
Dire che ci serve più fact-checking e meno storytelling è una semplificazione ingiusta perché i fatti per entrare nella nostra mente e nel nostro cuore hanno bisogno anche di narrazioni (non si ricorda il numero di una strage, piuttosto la storia di una vittima). Ma la verità deve essere il presupposto. La forza dei fatti deve tornare ad essere la base.
E’ quello che proviamo a fare in Agenzia Italia anche con questo libro. Abbiamo messo in fila alcuni dei grandi fatti del 2016 e ve li proponiamo in tre modi: con le foto che immortalano un momento, con i flash di agenzia che hanno scandito il fatto nella sua evoluzione, e con un commento che dica cosa resta dopo tutto.
E’ quello che ci proponiamo di fare ogni giorno nel 2017: ripartire dalla bellezza del giornalismo; scoprire, verificare, raccontare. Provando a contribuire in questo modo a rendere il mondo un po’ migliore.
Direttore responsabile dell’AGI (Agenzia Giornalistica Italia), Wikitalia, Chefuturo!, StartupItalia! Maker Faire Rome, Scuola Holden, Make in Italy Foundation
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