Siccome lo scriviamo da sempre, non possiamo che felicitarci per la decisione dei 5Stelle di darsi un codice etico. Meglio tardi che mai: un movimento che si candida a governare deve fissare chiaramente le cose da fare nei vari passaggi che attraversa un eletto o un iscritto (due figure da tenere ben distinte) quando finisce sotto inchiesta o processo. Il merito delle regole stabilite è ovviamente discutibile: l’obbligo di dimissioni in caso di condanna di primo grado può essere troppo lasco per certi casi e troppo rigido per altri, mentre è sacrosanto che un’iscrizione sul registro degli indagati, un avviso di garanzia o un invito a comparire non possano bastare per far dimettere un amministratore o un parlamentare (a volte, se i fatti sono gravi e già assodati, non c’è nemmeno bisogno di un’indagine; altre volte, se i fatti sono lievi o controversi, è bene attendere le conclusioni dei giudici). Altrimenti, visto che in Italia vige per fortuna l’obbligatorietà dell’azione penale, basterebbe denunciarli tutti per mandarli tutti a casa.
Le parti migliori del Codice sono due: quella che equipara la prescrizione (sempre rinunciabile nel processo) alla sentenza di condanna (non ai fini del processo, ma dell’onorabilità personale); e quella che lascia discrezionalità al garante Beppe Grillo e ai tre probiviri di giudicare caso per caso in base alla gravità dei fatti emersi, a prescindere dalle decisioni dei magistrati. Il famoso “primato della politica” non si realizza ignorando (come spesso fanno il Pd e gli alleati) o screditando (come sempre fa FI) le decisioni dei giudici. Ma assumendosi la responsabilità, davanti agli elettori e ai cittadini, di esaminare i fatti (scoperti da pm o da giornalisti) e di stabilire se il protagonista è degno di stare in un partito e/o in un pubblico ufficio. Alla luce dell’art. 54 della Costituzione: “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore”. Punto.
Naturalmente, siccome per lor signori i 5Stelle sbagliano sempre, sia quando fanno cose sbagliate sia quando fanno cose giuste, il Codice etico è stato subito demolito dai giornaloni e persino da quei ricettacoli di inquisiti, imputati e condannati impuniti che sono i partiti di destra, centro e sinistra. Con un sostantivo e un aggettivo dominanti: “Svolta garantista”. In realtà non c’è alcuna “svolta”: mai i vertici 5Stelle hanno espulso qualcuno dei loro o messo nero su bianco l’obbligo di dimettersi per altri soltanto sulla base di un’indagine in corso. Nei due V-Day Grillo leggeva l’elenco dei parlamentari condannati in via definitiva chiedendone la cacciata. Poi non un pericoloso grillino, ma la ministra Paola Severino e la maggioranza di larghe intese del governo Monti provvidero in tal senso nel 2012. E il “garantismo” c’entra come i cavoli a merenda, trattandosi di una corrente di pensiero che si rifà a Cesare Beccaria che predica il diritto intangibile degli imputati di potersi difendere con ogni mezzo lecito “nel” processo, mentre nulla dice di ciò che deve accadere fuori dalle aule di giustizia: cioè in quelle della politica, che rispondono a tutt’altre regole, in base al rapporto fiduciario fra eletti ed elettori.
Molti hanno scritto che il Codice sarebbe un salvagente ad personam per Virginia Raggi. Altra balla: la Raggi ne sarà soltanto la prima cavia, sempre che sia vero che la Procura di Roma si accinge a indagarla in seguito all’esposto dell’Anac per conflitto d’interessi nella nomina di Renato Marra (fratello minore di Raffaele) a dirigente comunale del Turismo. La Raggi non ha bisogno di essere “salvata” da nulla: appena divenne sindaca fu indagata e poi archiviata per non aver dichiarato – l’aveva rivelato il Fatto – una consulenza all’Asl di Civitavecchia, e nessuno si sognò di chiederne le dimissioni.
Gli unici “grillini”espulsi per motivi giudiziari sono stati il capogruppo al Comune di Alessandria, sorpreso da una telecamera a svaligiare l’armadietto di una palestra; e il consigliere di Quarto Giovanni De Robbio, indagato per aver ricevuto voti da un sospetto camorrista e per aver minacciato la sindaca Rosa Capuozzo (l’assessora Paola Muraro fa storia a sé: non è iscritta al M5S e si è dimessa dopo le bugie su un’indagine che bastava ammettere subito per disinnescarla). In entrambi i casi il problema non erano le inchieste, ma la gravità dei fatti. Anche i pianti greci di Pizzarotti e della Capuozzo lasciano il tempo che trovano: i due fingono di essere stati sanzionati per un avviso di garanzia, mentre il primo fu sospeso per non averlo dichiarato (poi se ne andò con le sue gambe) e la seconda fu giustamente espulsa senza essere indagata per non aver denunciato le minacce del consigliere (ora governa Quarto con Pd e FI).
Poi ci sono i vedovi inconsolabili di Tangentopoli, che vedono nella presunta “svolta” pentastellata una rivincita su Mani Pulite e ancora lacrimano perché nel 1992 “un avviso di garanzia equivaleva a una sentenza di condanna”. Quella era l’impressione della gente, ma non per un’improvviso attacco di giustizialismo: perché quasi tutti gl’indagati correvano a confessare e a restituire il maltolto a Di Pietro; e i reati contestati ai politici nel 1992-'93 erano finanziamento illecito, corruzione, concussione, peculato. Cioè furti commessi da pubblici ufficiali. Perciò la gente s’indignava.
Dei 5 Stelle, almeno finora, si è potuto dire di tutto, ma non che rùbino, concutano, si facciano corrompere, intaschino denaro pubblico. Perciò le indagini che li riguardano non han fatto crollare i loro consensi. E anche perché i partiti che ora sghignazzano per il Codice etico grillino, hanno poco o nulla da insegnare. Ma dei loro Codici etici parleremo domani: oggi manca lo spazio e ci viene troppo da ridere.
Marco Travaglio, Il Fatto Quotidiano, 4 gennaio 2017
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