Qualcuno si sarà domandato cosa sia saltato in mente l’altroieri al cosiddetto ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, di esortare gli studenti a giocare a calcetto per cercare lavoro, anziché attardarsi a collezionare titoli di studio e di merito nel proprio curriculum. La risposta è arrivata a stretto giro di posta sul Fatto di ieri: la tesi di dottorato scopiazzata qua e là su ricerche altrui dalla cosiddetta ministra della Funzione pubblica e Semplificazione, Marianna Madia (che ha un modo tutto suo per semplificare). Ma poteva pure bastare il pedigree della cosiddetta ministra della Pubblica Istruzione, Università e Ricerca scientifica, Valeria Fedeli, che spacciava una laurea in Scienze sociali mai conseguita, anche perché non ha neppure la maturità.
Poletti è stato sincero: abituato com’è a confrontarsi con falsi laureati e copioni, o con laureati in materie estranee a quelle di cui si occupano con enciclopedica incompetenza (il dermatologo Antonello Soro garante della Privacy, l’avvocato Angelino Alfano ministro degli Esteri, l’imprenditrice della moda Angela D’Onghia viceministra dell’Istruzione, non bastando la Fedeli...), s’è fatto l’idea che i curriculum è meglio nasconderli. A partire dal suo, contenente un prestigioso diploma in Agrotecnica e soprattutto una militanza quarantennale nel Pci-Pds-Ds-Pd, una presidenza di Legacoop e una vicepresidenza vicaria della Federazione Pallamano, oltre a una leggendaria cena con Buzzi, Alemanno, Panzironi, Casamonica e altri galantuomini. Sfugge però il riferimento al calcetto, sport in cui potrebbe eccellere al massimo nel ruolo del pallone.
È invece probabile, anzi sperabile, che Fedeli e Madia almeno nel calcetto vadano forte, visto che sul resto sono debolucce. Intendiamoci: non è che un buon ministro debba essere per forza titolare di una laurea (Alfano, per dire, ne ha una) o di un dottorato di ricerca. Se però non lo è, dovrebbe evitare di spacciarsi per tale. O di copiare da altri per diventarlo. Ma soprattutto, se viene preso col sorcio in bocca a contar balle o a fare il copia-incolla, dovrebbe scusarsi, dimettersi e ritirarsi a vita privata (come han fatto per molto meno vari ministri tedeschi). E possibilmente non arrampicarsi sugli specchi, offendendo l’intelligenza dei cittadini. Come invece purtroppo fa la Madia che, a proposito della sua tesi copia-incollata per un settimo (4 mila parole su 28 mila) da ricerche altrui, riesce a dichiarare: “I giudici valuteranno il danno che ho subìto”.
E ancora: “Non sta a me giudicare la qualità del mio prodotto, ma sono molto sicura della serietà del metodo. Di certo ogni fonte utilizzata è stata correttamente citata in bibliografia”. Parole in libertà che strappano a qualunque studente, anche ripetente, lo stesso commento che sorge spontaneo in chiunque la veda in faccia: “Ma ci è o ci fa?”. Lo sanno tutti che, quando si attinge da pubblicazioni altrui, si aprono le virgolette e si chiudono quando la citazione è finita, poi se ne indicano l’autore e il titolo tra parentesi o in nota. Non si spaccia il lavoro di altri per farina del proprio sacco, infilando in appendice l’opera plagiata come fonte soltanto consultata. Nessuno chiede alla ministra di “giudicare la qualità” del suo “prodotto”, ma di spiegare come sia compatibile l’asserita “serietà del metodo” con i lunghi brani interamente rubati ad altri. E di domandarsi che voto avrebbe ottenuto la sua “ricerca” se il tutor e il relatore avessero usato i due software anti-plagio impiegati dalla nostra Laura Margottini e scoperto quel che ha scoperto lei. Stiamo parlando, fra l’altro, della ministra che – così almeno riferiscono da tre anni le gazzette governative – fa la guerra ai “furbetti”, firmando fior di leggi per farli licenziare in tronco. La vestale dell’efficienza e della meritocrazia, orgoglio e vanto di Matteo Renzi che a ogni Leopolda, intervista, comizio, tweet, post e sms la mena con “la nuova Italia della conoscenza contro la vecchia Italia delle conoscenze”. Ora, se la Marianna non conosce il Codice etico dell’Imt di Lucca che generosamente le ha concesso il dottorato cum laude (è plagio “la presentazione delle parole o delle idee di altri come proprie”, l’“appropriarsi deliberatamente del lavoro altrui o non citare correttamente le fonti nel proprio lavoro accademico”), e neppure la legge 475 (è punito fino a 3 anni di reclusione chi “in esami o concorsi... presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri”), dovrebbe almeno avere una vaga idea del concetto di decenza.
Dunque rinunciare al dottorato, levando l’ateneo dall’imbarazzo della scelta tra perdere la faccia e perdere appoggi politici. E, anziché chiedere i danni al Fatto (lei a noi: uahahahahah), mettersi nei panni di uno dei tanti ricercatori talentuosi che, votati al martirio, restano in Italia per produrre lavori originali e innovativi con paghe da fame; oppure, stufi di prendere sberle dallo Stato che dovrebbe valorizzarli, emigrano ingrossando le file dei cervelli in fuga dal Paese dei decerebrati in carriera. Ragazzi ingenui, per carità. Non sapevano che, per strappare uno stipendio decente in patria, dovevano iscriversi a un torneo di calcetto per scapoli e Poletti. O, meglio, a un partito o un sindacato o alla Lega coop. O, meglio ancora, al registro degli indagati della più vicina procura. O, magari, fidanzarsi col figlio di Napolitano. O, l’ideale, esibire al posto del curriculum una bella fedina penale con condanna in Cassazione per peculato e affini. Ma questi, si sa, sono privilegi per pochi eletti (anzi, nominati).
Marco Travaglio
Il Fatto Quotidiano, 29 marzo 2017
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