Nella vita di un giocatore di basket (ma potremmo parlare di
qualsiasi altro sport) esistono due fasi distinte: la prima è quella delle
giovanili, in cui l’insegnamento della parte tecnica costruisce le basi
indispensabili per poter arrivare alla fase due. Che è quella dei campionati
senior, di qualunque livello essi siano. E lì, dalla Serie D alla Nba, non ci
sono eccezioni: se non hai imparato davvero a giocare... smetti. Arrivi a
diciotto, diciannove anni e improvvisamente ti ritrovi a guardare le partite da
bordo campo: rigorosamente lato tribuna, in mezzo al pubblico.
Nella vita di un allenatore delle giovanili ci sono due
strade possibili: la prima è indicata dal cartello «Vincere!», la seconda dal
cartello «Insegnare!». Più facile, molto più facile (anche se può sembrare
paradossale) imboccare la prima. E infatti gli allenatori delle giovanili si
dividono spontaneamente in due categorie: la prima raccoglie i numerosi seguaci
del vincere ad ogni costo, la seconda, molto più sparuta, quelli
dell’insegnare.
Chi appartiene alla prima categoria ha vita facile. Invece
di costruire mattone dopo mattone una buona pallacanestro, cosa faticosa per
chi impara ma soprattutto per chi insegna, si trova davanti una marea di
semplicissime scorciatoie. Che vanno dal prendere i due o tre ragazzi più
grossi e metterli a battagliare in solitaria, dicendo ai compagni di servirli
che poi ci pensano loro, fino allo spiegare che basta picchiare quando
l’arbitro non guarda, o almeno quando lo consente, per mettere in crisi gli
avversari. Scorciatoie come insistere sui punti di forza dei bambini o dei
ragazzi evitando accuratamente di lavorare per correggere gli errori, colmare
le lacune, aggiungere ogni settimana un pezzo in più alla costruzione del
giocatore del futuro.
Chi appartiene a questa categoria ha vita facile: perché,
praticando qualcosa che assomiglia alla pallacanestro senza mai esserlo
davvero, vince. Non sempre ovviamente, ma spesso. E i bambini se vincono sono
felici. E se sono felici i bambini sono felici anche i genitori, che non
rompono le scatole all’allenatore perché il loro Michael Jordan (incompreso dal
mondo intero) ha giocato poco, viene utilizzato in modo sbagliato, viene
scarsamente lodato in proporzione alla scienza cestistica che dispensa ogni
volta che scende in campo.
Chi appartiene alla seconda categoria invece fa una scelta
difficile, al limite della follia e dell’autolesionismo. Perde spesso e
volentieri, a meno che alleni una delle poche squadre di altissimo livello che,
facendo davvero selezione, scelgono i talenti fin dalla più tenera età per poi
crescerli come il Dio del basket comanda.
Siccome di solito questa fortuna capita a pochi, in genere
per gli adepti dell’insegnamento sono dolori: incontrano squadre di energumeni
picchiatori che li battono con una certa regolarità, infarcite di giocatori che
magari fanno una cosa bene, ma sempre una e sempre solo e dannatamente quella,
e loro sembrano imbecilli perché non riescono a fermarli e, alla fine, il
tabellone del punteggio è quello che conta.
Vanno in palestra e durante l’allenamento, invece di sedersi
comodamente a dare indicazioni da bordo campo, si muovono come ossessi sul
terreno di gioco per spiegare, imitare i movimenti, farli ripetere fino alla
noia. Lavorano sui particolari. Dimenticano i punti di forza, o almeno li
accantonano come un tesoretto intoccabile, per insistere sulle debolezze, per
eliminarle, per trasformarle in mosse vincenti.
Così facendo non soddisfano i bambini, non soddisfano i
genitori e si espongono alla critiche anche tecniche di chi, pur faticando a
spiegare cosa sia un’infrazione di passi, al grido di «sai, io ho visto molte
partite!» reclama il diritto di spiegare per filo e per segno cosa si dovrebbe
fare per portare a casa il risultato. Prego, accomodarsi nel primo gruppo. Qui
non c’è posto.
Gli allenatori della seconda categoria sono quelli che,
rinunciando a vittorie facili, costruiscono i giocatori. Che li mettono in
condizione di rendere al meglio delle proprie possibilità, indipendentemente
dal livello che sapranno raggiungere. Che li portano, alla fatidica età dei
diciotto o diciannove anni, a finire le giovanili e ad entrare nei campionati
senior: sul campo, non lato tribuna. Protagonisti completi dello sport che amano,
mentre gli energumeni picchiatori di qualche anno prima guardano tristemente
seduti tra il pubblico. Oppure, nel migliore dei casi, trascinano per campetti
secondari l’unica cosa che sanno fare da vent’anni morendo di invidia nel
vedere dove sei arrivato. Mentre sussurrano, con un sorriso pieno di tristezza:
«Pensa! Quello lì, dieci anni fa, lo battevo tutte le volte che lo
incontravo...».
Ho visto di recente una partita di ragazzini tra i 13 e i 14
anni, chiusa con un divario di oltre 30 punti: al suono della sirena mi sono
precipitato a felicitarmi con l’allenatore. Quello perdente. «Complimenti coach
- gli ho detto stringendogli la mano -. I suoi oggi perdono, ma stanno già
giocando a basket».
Gli allenatori della seconda categoria non lavorano per se stessi, ma per il futuro: perché l’amore per quella maledetta palla arancione
suddivisa in tanti spicchi possa durare il più a lungo possibile. Perché
chiunque abbia giocato, o allenato, provando amore vero per il proprio sport sa
che, una volta smesso, il profumo della palestra, il rumore del pallone che
rimbalza sul parquet, il fruscio della retina non ti abbandoneranno. Mai. Ti
accompagneranno per sempre. E avrai sempre la voglia di fare un ultimo tiro o
di sederti ancora una volta sulla panchina per guidare una squadra.
Un vecchio detto cinese recita: «Se un uomo ha fame e gli
regali un pesce l’hai sfamato per un giorno. Se gli insegni a pescare l’hai
sfamato per la vita». A tutti noi, genitori, la libera scelta di decidere cosa
vogliamo per i nostri figli.
P.S. L’inventore della pallacanestro si chiama James
Naismith. È stato il primo allenatore di questo sport. In molti, al suo posto,
pur di vincere avrebbero cambiato le regole ogni volta: nessuno avrebbe potuto
obiettare, visto che erano una sua idea. Ha guidato per dieci anni la Kansas
University vincendo 55 partite e perdendone 60. Nella storia di quella squadra
è l’unico head coach ad avere un record negativo. James Naismith amava il
basket.
Mattia Losi, Il sole 24 ore
Mattia Losi, Il sole 24 ore
Commenti
Posta un commento