È il nuovo genere letterario del post-giornalismo: la smentita alla notizia mai data o nascosta. Funziona così: esce una notizia scomoda per il potere e la si occulta; poi si lavora alacremente per smontarla con elementi falsi o parziali che sembrano ridimensionarla, e quelli vengono sparati come bombe termonucleari. In mezzo c’è il cittadino, il lettore, il telespettatore, che quando arriva la smentita (o presunta tale) non riesce a capire a quale notizia si riferisca. Era accaduto sui giornaloni (i telegiornaloni non ne hanno mai parlato) sullo scandalo Madia svelato dal Fatto: qualche trafiletto sulle repliche della ministra e della scuola Imt di Alti Studi di Lucca, nemmeno una riga sulla tesi di dottorato ampiamente plagiata. È riaccaduto con l’indagine per falso a carico del capitano del Noe dei Carabinieri Gianpaolo Scafarto, reo di avere smascherato lo scandalo Consip e, fra le migliaia di intercettazioni esaminate, di avere sbagliato ad attribuire la frase “Renzi l’ultima volta che l’ho incontrato…” (ad Alfredo Romeo anziché a Italo Bocchino). Il 16 febbraio si diffuse la notizia che babbo Renzi era indagato per traffico d’influenze illecite e ci vollero i Tom Tom e i microscopi elettronici per trovarne traccia nelle copertine dei tg della sera e dei giornaloni dell’indomani. Roba da esperti di nanoparticelle.
Ora che invece la Procura ha scoperto l’equivoco Bocchino-Romeo su babbo Renzi, la notizia si guadagna titoloni cubitali. Trascurabile comparsa quando viene indagato per essersi fatto promettere tangenti in cambio di favori a un imprenditore nell’appalto più grande d’Europa, il padre dell’ex premier diventa protagonista assoluto, personaggio del giorno, del mese e dell’anno quando si scopre che Romeo non ha detto di averlo incontrato. Eppure l’accusa di traffico d’influenze non si fonda su quella frase, ma sui due pizzini con la sua iniziale T. e la cifra “30.000 x mese” scritti da Romeo dopo molti incontri e colloqui con il suo “facilitatore” Carlo Russo; sulle intercettazioni Romeo-Russo in cui si parla di Tiziano; sul verbale pieno di gravissime accuse dell’ad di Consip Luigi Marroni; sulle condotte furtive di babbo Renzi dopo che il solito uccellino gli ha spifferato i segreti dell’indagine. Eppoi l’incontro fra lui e Romeo, peraltro non indispensabile per sostanziare l’accusa (Russo parlava sempre a nome suo), lo raccontano il commercialista del Pd napoletano Alfredo Mazzei (a cui lo riferì Romeo) e il medico e sindaco di Rignano Daniele Lorenzini (a cui lo rivelò Tiziano, suo amico e paziente).
Tutte queste cose non le ha scritte solo il Fatto (che il 22 dicembre svelò l’inchiesta su Lotti & C., ma non l’iscrizione di Tiziano Renzi), ma tutti i giornaloni quando divennero pubbliche con la discovery degli atti nelle ordinanze di arresto per Romeo e di perquisizione per Bocchino e Russo. Ma ora fingono di dimenticarsene. Come se, a carico di babbo Renzi, ci fosse solo quella mezza frase ora sfumata. E come se ci fosse un complotto (del Noe), con tanto di mandanti (la Procura di Napoli, quella “cattiva” di Woodcock), sventato dall’arrivo dei nostri (la Procura di Roma, quella “buona” di Pignatone). Un complotto talmente astuto che i pm l’hanno smontato grazie al lavoro del Noe. L’inchiesta sull’inchiesta diventa più importante dell’inchiesta medesima, anche se da una parte c’è un errore su una frase e dall’altra una montagna di indizi, tutti confermati da sei pm, un gip e tre giudici del Riesame su tangenti e manovre per truccare il più grande appalto d’Europa e sulle fughe di notizie che hanno rovinato l’indagine salvando i Vip coinvolti da guai peggiori.
Tralasciando gli altri candidati per ragioni di spazio, il premio Post-Giornalismo 2017 se lo aggiudicano per ora, ex aequo, Tg3 Lineanotte e Repubblica. “Colpo di scena!”, trillava giulivo l’altra sera un Maurizio M’annoi insolitamente sveglio: “Tiziano Renzi non c’entra!”. Poi, a mani giunte davanti al Santissimo, riportava come un oracolo il commento a caldo di San Matteo Vergine e Martire: “Mio padre ha pianto, Beppe Grillo vergognati” (Grillo non c’entra nulla, ma si porta su tutto). E dava subito la parola alla sua spalla, Francesco Verderami del Corriere: “Abbiamo un giudice a Roma: il procuratore Pignatone!” (che poi sarebbe un pm, ma fa lo stesso). Poi, per la par condicio, ecco Umberto De Giovannangeli dell’Unità che, occupandosi di esteri, sa tutto di Consip: “Altro che congetture, qui c’è uno scontro politico fortissimo attraverso corpi dello Stato manipolatori. Siamo una Repubblica delle banane! In Europa e nei Paesi civilizzati nessuno arriva a questa miseria” (in Francia, per dire, nessun giornale parla delle inchieste sulla famiglia Fillon). Ergo, d’ora in poi, “sarebbe bene non pubblicare più i brogliacci delle Procure”. Un bell’autobavaglio: nemmeno B. aveva osato chiedere tanto. L’idea di domandare qualcosa all’inviato dell’Unità sullo scandalo dell’Unità svelato da Report sulla stessa Rai3 non sfiora neppure M’annoi, ansioso di mostrare subito un giornale solitamente confinato a tarda notte: “Il Fatto Quotidiano che, come sapete, segue quotidianamente il caso Consip”, cioè fa quello che dovrebbero fare anche gli altri. Cocente delusione: visto che seguiamo quotidianamente, diversamente da lui conosciamo l’inchiesta, dunque il nostro titolo è un po’ diverso dal suo: “Cade un indizio su babbo Renzi (ma restano in piedi tutti gli altri)”. Mortificato, M’annoi biascica: “Sarà interessante capire a quali altri indizi si riferisce”. Già, per capirlo ci vorrebbe un giornalista e lui purtroppo al momento ne è sprovvisto.
Ma ecco Repubblica. Lì di giornalisti ce ne sono parecchi, e anche bravi, e anche al corrente del caso Consip. Scende in campo quello che un mese fa tagliuzzò e travisò un messaggio in chat di Di Maio alla Raggi per dimostrare l’esatto contrario di quel che diceva su Raffaele Marra. Chi meglio di lui per commentare l’errore del capitano? Titolo: “Finti 007 e intercettazioni: così hanno manipolato le carte per coinvolgere Palazzo Chigi”. Svolgimento: “Sembra una faccenda uscita dalla sentina dei giorni peggiori della storia repubblicana”. Giusto: un carabiniere che scambia Bocchino per Romeo è peggio del piano Solo, del golpe Borghese, della strategia della tensione, delle stragi di Stato e del caso Moro. I condizionali che scortavano le accuse a babbo Tiziano&C. diventano, per Scafarto, indicativi molto assertivi, sentenze definitive di condanna: l’ufficiale “ha costruito consapevolmente due falsi” per incastrare Matteo e suo padre, ma anche per “alimentare una campagna di stampa che, con perfetta sincronia e sapiente ‘fuga di notizie’” (lo scoop natalizio del Fatto, che ancora brucia) serviva a forzare la mano della Procura di Roma. Non a caso Scafarto fu “celebrato dal Fatto Quotidiano” (che scrisse la verità, cioè che Scafarto è un allievo del famoso “capitano Ultimo” e perciò ha applicato le tecniche antimafia all’inchiesta Consip rovistando nella spazzatura per ricostruirne i pizzini di Romeo): infatti “questa velenosa polpetta è stata propinata a due Procure e al quotidiano il Fatto ‘in esclusiva’ e, a rimorchio, al resto della stampa del Paese”.
E qui il valoroso collega eccede in modestia, sottovalutando il suo giornale e sopravvalutando il nostro: ci attribuisce uno dei pochi scoop che non abbiamo fatto, visto che una volta tanto la notizia l’aveva anche Repubblica. Il 6 marzo il Fatto uscì in prima pagina col titolo “Romeo smentisce Tiziano”, per la frase ora rivelatasi di Bocchino. E lo stesso giorno Repubblica scrisse, per la penna di Dario Del Porto e Conchita Sannino, “…è ancora Romeo a sostenere di aver incontrato Tiziano Renzi, in una confidenza con il suo fidatissimo Italo Bocchino”. Purtroppo la frase non era nel titolo e l’articolo era a pagina 6 in basso. Quindi la “velenosa polpetta” fu “propinata in esclusiva” anche a Repubblica, che però la nascose o non la capì, e ora si autosvilisce a semplice “rimorchio” del Fatto. Orsù, amici, non buttatevi troppo giù.
di Marco Travaglio, Il Fatto Quotidiano, 12 aprile 2017.
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