Economisti, intellettuali, storici ed esperti a confronto nella tre giorni " A seminar la buona pianta" organizzata da Aboca (a Milano dal 28 settembre) su sostenibilità, lavoro e produzione. Cambiare il futuro? È una necessità
L’economia dei beni comuni: è una formula di successo che dal 2010 a oggi è stata adottata da 2.500 aziende e 100 gruppi locali di sostegno. Anche perché questa nuova definizione sembra appianare tutte le contraddizioni rovesciando l’approccio tradizionale. Non è più la "mano invisibile" del mercato a guidare l’economia superando gli egoismi individuali, ma è l’ancoraggio all’interesse collettivo a stimolare e indirizzare la produzione. Così al vecchio Pil – che come diceva Bob Kennedy «misura tutto tranne ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta» – si sostituisce il Bilancio dei beni comuni. Le perfomance dei singoli settori passano in secondo piano rispetto a un punto di vista più ampio capace di pesare, assieme ai singoli fatturati, l’impatto che le attività produttive hanno sulla società.
È uno dei temi affrontati nell’edizione 2018 di "A seminar la buona pianta", la tre giorni di incontri e spettacoli organizzata da Aboca a Milano (28-30 settembre) a cui parteciperanno economisti, filosofi, storici e imprenditori. Tra di loro Christian Felber, docente di Economia a Vienna, che arriverà con in tasca il sondaggio della Fondazione Bertelsmann secondo cui fino al 90 per cento di tedeschi e austriaci desiderano una "nuova economia": un’altra testimonianza della crescente pressione per il cambiamento. Ma l’idea di "bene comune" è sufficiente per imprimere al percorso una direzione chiara?
«In passato a stabilire cosa fosse il bene comune erano la Chiesa, la politica, le leggi morali. Ora il peso della scelta è sulle spalle delle singole persone e questa espressione e rischia di diventare un ossimoro perché l’impronta individualista è sempre più netta», risponde Roberto Verganti, docente di Leadership e Innovation alla School of Management del Politecnico di Milano. «Comunque quando si parla di bene comune si indica un obiettivo che supera l’immediatezza, il segno che si vuole lasciare nel mondo. E questa aspirazione comincia a orientare le imprese perché secondo uno studio del World Economic Forum il 60 per cento dei Millennials sceglie il lavoro sulla base dello scopo, del senso che quell’attività implica».
La definizione del bene comune è dunque un punto centrale attorno a cui si giocano due battaglie cruciali. La prima è culturale, con un diretto riflesso politico: se l’idea di "valore comune" assume dimensioni localistiche, prevalgono barriere e fili spinati; se invece la prospettiva diventa globale, servono di più i ponti. Quale visione prevarrà?
«Basta guardare le previsioni della comunità scientifica per convincersi che l’accezione di bene comune sarà sempre più legata ai temi globali perché da loro dipende la nostra sopravvivenza fisica», osserva Telmo Pievani, ordinario di Filosofia delle Scienze al dipartimento di biologia dell’Università di Padova. «Il crollo della biodiversità rappresenta una minaccia per circa un terzo delle specie viventi. E queste specie contribuiscono ad assicurarci suolo fertile, acqua pulita, aria respirabile. Senza di loro molti servizi ecosistemici, oggi gratuiti, diventerebbero a pagamento: il cambiamento climatico colpirebbe con maggior violenza tutti, e in particolare i più poveri».
Rinunciare alla governance globale dei beni da cui dipende la sopravvivenza dell’umanità porterebbe all’inaridimento di ampie aree del mondo e a un aumento esponenziale del numero dei migranti. Arroccarsi in una visione ristretta del noi, prodotta da un eccesso di paura, finirebbe così paradossalmente per minare la sicurezza collettiva invece di rafforzarla. «Lo sanno molto bene le agenzie di sicurezza degli Stati Uniti che, mentre Trump nega il cambiamento climatico, considerano il global warming una delle maggiori minacce per il Paese», aggiunge Pievani.
La seconda grande battaglia che si gioca sulla definizione di bene comune è quella sul futuro del lavoro. Come nota Verganti, in un mondo in cui gli impegni «ci seguono digitalmente 24 ore su 24, le persone cercano nel lavoro non solo un salario, ma un senso nella propria vita. Perciò chiedono che le organizzazioni in cui lavorano contribuiscano alla costruzione di questo senso». «Su questo fronte c’è una convergenza di interesse tra lavoratori e aziende», commenta Massimo Mercati, amministratore delegato di Aboca. «Noi abbiamo appena deciso di trasformare Aboca in B-Corp: vogliamo passare dal concetto di responsabilità sociale di impresa, in cui le aziende compensano l’impatto ambientale della produzione con azioni di tipo ecologico e sociale, all’idea di un agire collettivo che tende a difendere e rafforzare i beni comuni.
Credo che il futuro apparterrà alle imprese che riusciranno a fondere bene comune e bene aziendale».
Tratto da La repubblica, 25 settembre 2018
Tratto da La repubblica, 25 settembre 2018
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