O la pelle o il PIL

 


Mi hanno molto colpito le interviste al ministro della Transizione ecologica Cingolani e al presidente di Federacciai Alessandro Banzato su Repubblica del 17 luglio. Il primo in relazione al nuovo pacchetto di misure verdi della Commissione Europea appare più preoccupato per la chiusura di “Motor Valley” che dell’ambiente, il secondo, pur ammettendo l’importanza del tema ambientale, chiede più tempo e gradualità, ritenendo che “la velocità di attuazione delle misure forse è troppo alta”. Ma il problema è che di tempo per fare queste scelte ne abbiamo avuto molto e l’abbiamo sprecato in indugi, chiacchiere, opposizioni e negazionismi. La Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti climatici è del 1992. Quasi trent’anni fa. Si poteva iniziare allora e non si è fatto. Ora che siamo in emergenza ambientale e climatica, condizione certificata dalla miglior scienza mondiale (vedi raccolta di articoli scientifici prodotta dalla Alliance of World Scientists) e ribadita dal Segretario generale Onu António Guterres, allorché finalmente in Europa si prendono tardivi provvedimenti concreti per limitare le emissioni fossili ecco che si levano alti lai proprio da coloro che per decenni hanno rallentato la transizione. Chiedere ancora altro tempo oggi equivale ad arrivare all’obiettivo a catastrofe già conclamata. Se l’intervista fosse stata fatta invece che al padrone delle ferriere al Segretario generale dell’organizzazione meteorologica mondiale, o a un rappresentante del mondo assicurativo che sta subendo un drastico aumento dei danni da eventi meteo estremi, la risposta sarebbe stata che “la velocità di attuazione delle misure è troppo bassa”.

“Le dichiarazioni del ministro della Transizione ecologica sono a nc h’esse stridenti: intanto la pianura padana, un tempo conosciuta come culla mondiale della produzione agricola d’eccellenza viene ora chiamata senza mezzi termini “Motor Valley”, una piattaforma cementizia per la logistica e l’industria. Frutto di una trasformazione per nulla ecologica contro la quale a nulla sono serviti decenni di avvisi ufficiali (rapporto Ispra) che mettevano in guardia verso l’eccessiva e irreversibile cementificazione del suolo. Ma poi perché mai dovremmo difendere i motori a scoppio di lusso di fronte all’emergenza climatica? Se i grandi produttori di supercar capiranno la sfida che l’umanità ha di fronte, accelereranno come sono capaci a fare ma in un’altra direzione: invece che continuare a cavalcare il mito ormai obsoleto dell’auto grossa e potente si impegneranno a fondarne un altro, quello dell’auto piccola, elettrica e ad altissima efficienza ed autonomia grazie a migliori batterie e celle solari montate sulla carrozzeria. Se non ci riusciranno, pazienza, le supercar non sono indispensabili. Invece ravviso una sudditanza eccessiva alla crescita economica. Cingolani dice giustamente che la transizione avrà un prezzo, e automaticamente riduce la cura per limitarlo il più possibile, per mantenere un’accettazione sociale elevata delle scelte verdi. Ma potrebbe osare ben di più e giustificare il pagamento di un modesto prezzo economico oggi per evitare di pagare un prezzo estremamente più elevato domani sotto forma di disastri ambientali, prezzo non solo in denaro, ma pure in sofferenza. Vogliamo provare a chiedere ai tedeschi alluvionati se pensano che sia meglio salvare le auto ruggenti o la loro incolumità? Uno studio di Kahraman e colleghi dell’università di Newcastle apparso su Geophysical Research Letters segnala che senza limitazioni delle emissioni a fine secolo alluvioni come quelle tedesche potrebbero essere 14 volte più frequenti. Di che rendere immensi territori abitati completamente invivibili.

La crisi ambientale che stiamo vivendo è epocale e come tale richiede misure inedite e prioritarie, altro che sudditanza all’economia. Manca la visione della complessità dei fenomeni naturali e dell’enorme prezzo che ci faranno pagare se non ne rispetteremo i limiti. Che erano già stati riconosciuti quasi 50 anni fa dal nostro Aurelio Peccei e dal Mit con il rapporto sui limiti alla crescita. Inascoltato e deriso, ma ancora una volta verificato come corretto da Gaya Herrington, dirigente della società di consulenza Kpmg, che ha pubblicato i risultati dell’aggiornamento sullo Yale Journal of Industrial Ecology: se l’umanità continua a seguire la crescita economica infinita in un pianeta finito, il collasso a breve termine della società globale appare inevitabile e la finestra utile per schivarlo si sta rapidamente chiudendo, restano pochi anni. Roba grossa. Se saltano i processi naturali che ci sostengono non ci saranno più nemmeno l’economia e il Pil, l’importante sarà solo salvare la pelle. Non sarebbe meglio parlare di queste cose che difendere gli interessi di “Motor Valley”?


Luca Mercalli, Il Fatto Quotidiano, 21 luglio 2021



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