Il trucco e l'arrocco


Se parlo, finisco in guai seri: parole di José Mourinho, rilasciate qualche tempo fa in uno di quegli accesi dopo partita ai quali il calcio ci ha abituati. Ma le ha ritwittate Magnus Carlsen, una quindicina di giorni fa, e dunque: cosa diavolo non poteva dire, Carlsen, e di quali guai parlava?

Benché in questa serie di articoli si sia già girato molto intorno al fuoriclasse norvegese, e pure alla Sinquefield Cup appena conclusasi a Saint Louis – ultimo capitolo del Grand Chess Tour, con un montepremi di centinaia di migliaia di dollari, che il campione del mondo ha lasciato nel piatto abbandonando improvvisamente il torneo – bisogna proprio che ricominci da lui. E dal forfait più clamoroso che la storia degli scacchi ricordi, dopo quello di Fischer ai mondiali del ’72, giusto cinquant’anni fa.

E’ andata così: Magnus Carlsen ha vinto la prima partita del torneo, molto attesa, contro Ian Nepomniachtchi. Questa di Saint Louis era la prima occasione in cui i due erano uno di fronte all’altro, dopo la schiacciante vittoria di Carlsen al mondiale di Dubai e la rinuncia a difendere nuovamente il titolo in un match di rivincita contro il russo (che intanto si era prontamente riguadagnato il diritto di sfidarlo, vincendo il Torneo dei Candidati). Ed è stata una vera lezione di scacchi, che vi converrebbe recuperare online: col Bianco, Carlsen ha scelto in apertura una linea poco ambiziosa, che ha consentito al Nero di completare lo sviluppo senza difficoltà. Di lì in poi, però, Carlsen ha cominciato a macinare gioco: una ventina di mosse in cui i motori scacchistici continuavano a valutare la posizione come sostanzialmente pari, mentre veniva sempre più in chiaro, però, che Carlsen sapeva cosa fare, mentre Nepo no. Piccoli vantaggi posizionali da sfruttare – la coppia degli alfieri del Bianco e il pedone isolato del Nero – e poi, al giro di boa della trentesima mossa, un pedone in più, benché doppiato. Di lì in poi, in poche mosse semplici e profonde, Carlsen ha letteralmente sbriciolato la posizione del Nero, costretto impotente ad abbandonare alla quarantatreesima mossa.

Al secondo turno, col Nero contro Levon Aronian, Carlsen non ha rischiato nulla, e la partita è filata via liscia, senza sussulti, fino alla patta. Al terzo turno, invece, il fattaccio. Carlsen aveva di nuovo il Bianco e giocava contro uno dei leoni della nuova leva, il diciannovenne Hans Moke Niemann – origini danesi, cittadinanza americana – che è in forte ascesa, ma nel rating si trova ancora al 49esimo posto, con un elo inferiore di quasi duecento punti a quello del campione del mondo: un abisso. E così anche questa partita si è risolta in una severa lezione di scacchi, ma, incredibilmente, a impartirla è stato Niemann, per giunta sul terreno più congeniale a Carlsen, quello dei finali! Anche questa volta Carlsen non ha ottenuto nulla dall’apertura, ha cambiato presto le Regine, come già con Nepo, e ha dato l’impressione di voler vincere facendo valere la propria superiore capacità di manovra contro un avversario decisamente meno esperto di lui. Vinco perché gioco meglio, insomma, e ora ve lo dimostro. Invece è accaduto l’esatto contrario: Niemann non ha sbagliato nulla, Carlsen è stato presto costretto a cedere un pedone per cercare di dare più gioco ai suoi pezzi, ma Niemann ha scelto ogni volta le mosse migliori e non gli ha dato scampo: se seguite la partita con l’aiuto di un motore, vi accorgete che l’americano pesca ogni volta la prima scelta del computer, con una precisione assoluta. Alla 57esima mossa Carlsen, ingrugnito come non mai, ha stretto la mano dell’avversario e abbandonato: a tempo lungo, non perdeva da oltre cinquanta partite di fila.

“Very impressive”, è stato il commento di Nepomniachtchi, pronunciato con un filo di scetticismo più che con ammirazione. Il commento di Carlsen – uno a cui, va detto, non piace perdere neanche se gioca a sasso carta forbice – è arrivato il giorno dopo, con il tweet, e non è stato cavalleresco: non fatemi parlare. Mi prendo la libertà di tradurre così: non ci credo. Non può essere farina del suo sacco. Hans Niemann ha barato. E io abbandono il torneo.

Il sospetto che l’avversario imbrogli si affaccia purtroppo con una certa frequenza, nel mondo degli scacchi. Nei tornei amatoriali – quelli nei quali non si può schierare la polizia nei gabinetti – non è complicato: in sala i cellulari devono essere spenti, ma quando vai in bagno puoi tirarlo fuori e usare il motore. Se hai dovuto consegnarlo all’arbitro, prima dell’inizio della partita, puoi averne in tasca un altro: non ti perquisiscono mica. Più il torneo è importante, però, più aumentano i controlli, ovviamente, ma bisogna arrivare sulla soglia del mondo professionistico per vedere attuate misure particolarmente rigorose. Sfuggire alle quali non è semplicissimo, e anzi io proprio non so come si faccia a farla franca, e come per esempio Hans Niemann possa aver barato: aveva qualche invisibile chip nelle orecchie, oppure qualcosa era nascosto nelle suole delle scarpe? Va’ a sapere (secondo Elon Musk, aveva un vibratore anale, ma si sa: Musk è uno zuzzurellone). Di sicuro, dopo la clamorosa vittoria e le pesanti allusioni di Carlsen, hanno dovuto aumentare i controlli, portando a un quarto d’ora il ritardo nella trasmissione online delle mosse e sottoponendo il riccioluto Niemann a una scrupolosissima ispezione col metal detector. Ma non è saltato fuori nulla: l’irriverente americano, che nel frattempo non si è fatto mancare il perfido piacere di prendere in giro Carlsen – posso immaginare come debba sentirsi il campione del mondo dopo aver perso con un idiota come me, ha dichiarato con spavalderia – ha potuto tranquillamente concludere il torneo. Senza ulteriori eclatanti risultati, ma in modo dignitoso.

Ha barato davvero? Carlsen lo pensa di sicuro. Questa settimana se l’è trovato di nuovo davanti in un danaroso torneo online, e si è rifiutato di giocare: dopo la prima mossa ha ab

bandonato (salvo vincere ugualmente il torneo: è ancora decisamente il più forte). Ma può bastare una qualità di gioco che rasenta la perfezione a giustificare il sospetto? Il fatto è che un paio di altri elementi da considerare ci sono. Il primo è il più importante: già in altre occasioni Niemann si è aiutato con il computer. La piattaforma di scacchi online chess.com lo ha in passato squalificato in ben due circostanze. Nell’intervista concessa dopo la vittoria su Carlsen, Niemann ha per la prima volta ammesso che quelle squalifiche erano meritate, ma ha ovviamente aggiunto che ha imparato la lezione e non si è più sognato di farlo. Bisogna credergli?

Il secondo elemento è nelle stesse dichiarazioni rese da Niemann dopo la vittoria, quando ha detto di aver potuto preparare l’incontro sulla base di una partita giocata in passato da Carlsen, in cui il campione del mondo aveva adottata la stessa apertura giocata contro di lui. Il fatto è che Niemann è stato impreciso nel dare il riferimento: ha parlato di una partita di

Carlsen contro Wesley So a Londra, nel 2018, mentre può trattarsi solo di una partita giocata dai due l’anno successivo: nel 2019, dunque, non nel 2018. E non a Londra bensì a Kolkata, in India. Semplice défaillance della memoria?

Naturalmente, simili dubbi non valgono mezza prova, ed è per questo che Carlsen non si è lanciato in esplicite accuse che suonerebbero diffamatorie, se non fossero provate. Ma ha alluso, neanche troppo velatamente, e molti hanno condiviso le sue allusioni. Tra i pochi che han dato invece credito alla vittoria di Niemann c’è Levon Aronian. Che una cosa vera l’ha detta, comunque siano andate le cose. Imbrogli o no, gli scacchisti non ci stanno a perdere. Specie quando lo smacco viene da facce nuove, sfrontate abbastanza da giocare senza timori reverenziali. Invece di pensare di aver fatto il loro tempo, gli “anziani” del giro – che come ogni élite tendono a reputarsi inamovibili, aggiungo io – preferiscono pensare ci sia sotto qualche trucco. Ed è un’altra, dura lezione, al di là del brutto affare di St. Louis (che chissà se mai arriverà a una finale rivelazione): meno conta la fortuna – e negli scacchi conta zero – e più hai bisogno di accampare scuse, se vuoi addolcire l’onta della sconfitta.

Breve e veridica galleria di episodi famosi, in cui, imbrogli o no, il soccombente, per dirla con Thomas Bernhard, proprio non ci sta a soccombere.

Settembre 2006, toiletgate. Si gioca in Russia, ad Elista, la sfida per il titolo di campione del mondo. Il match è importante perché sancisce la riunificazione del titolo mondiale, dopo lo scisma provocato oltre dieci anni prima dal ribelle Garry Kasparov. Di fronte sono il bulgaro Veselin Topalov, campione Fide, e il russo Vladimir Kramnik, campione Pca, colui che ha strappato la corona proprio a Kasparov. Il match sembra non avere storia: Kramnik vince la prima, col Bianco, e la seconda, col Nero. Poi patta le due partite successive. E a quel punto Silvio Danailov, capo della delegazione bulgara, lancia il sasso: Kramink va troppo spesso in bagno durante la partita: cinquanta volte, la cosa è perlomeno strana. I russi si indignano: Kramnik soffre di una grave forma di artrite, prende farmaci che lo costringono a urinare più spesso e va alla toilette anche solo per camminare, perché c’è più spazio. Gli arbitri però decidono che un bagno per due può bastare e tolgono a Kramink l’accesso a una toilet personale. Per protesta il campione russo non si presenta alla quinta partita. Il match prosegue in mezzo a furibonde polemiche. E finisce in parità. Kramnik prevarrà allo spareggio. Topalov non ritirerà mai le accuse, pur non avendo potuto in alcun modo provarle, e Kramnik si rifiuterà sempre di stringere la mano all’avversario, tutte le volte in cui, in seguito, gli capiterà di incontrarlo.

A ritroso: luglio 1978, lo yogurt. Si gioca a Bagujo, nelle Filippine. Karpov difende per la prima volta il titolo di campione del mondo (conquistato dopo il ritiro di Bobby Fischer) dall’assalto di Viktor Korchnoi. I due non sono amici, che è un modo gentile per dire che non si sopportano. Non possono essere più diversi: Karpov è fedele alla disciplina di partito (e forse alla disciplina in genere: oggi siede nella Duma ed è fra i russi colpiti dalle sanzioni occidentali contro la guerra in Ucraina); Korchnoi, invece, in odore di dissidenza, ha già lasciato la Russia, e in seguito prenderà la cittadinanza svizzera. Seconda partita del match, alla venticinquesima mossa, tramite uno degli arbitri Karpov riceve un bicchiere di yogurt: che significa? La delegazione di Korchnoi firma una formale lettera di protesta: lo yogurt, insinua, era un segnale mandato dall’équipe di Karpov al giocatore e significava: “offri la patta”, o qualcosa del genere. Anche in questo caso le accuse non sono suffragate da prove. Ma ci saranno, dopo lo yogurt, proteste e ricorsi di ogni tipo, compreso quello contro la presenza – ipnotica, secondo Korchnoi – dello psicologo Zukhar, per contrastare la quale Viktor il Terribile gli farà sedere accanto due validissimi rappresentanti della setta indiana “Ananda Marga”. Non servirà a nulla: il match proseguirà, e dopo oltre tre mesi di gioco e trentadue partite – uno dei più combattuti match mondiali della storia – confermerà Karpov campione del mondo.

Più indietro ancora. Agosto 1972, la sedia. A Reykjavík è in corso il match del secolo, quello che consegnerà Fischer alla leggenda. L’americano lo ha in pugno, ma i sovietici intendono provarle tutte, pur di non cedere le armi. Il capo delegazione di Spasskij, Efim Geller, scrive agli arbitri lamentando il probabile uso, da parte di Fischer, di dispositivi elettronici capaci di influenzare negativamente il campione del mondo, disturbandone i pensieri con emissione di ultrasuoni, o, forse, con il subdolo rilascio di sostanze chimiche. Anche questa volta non ci sono prove, a meno di non considerare tali le due mosche morte stecchite nella sala da gioco, alle quali il New York Times dedica addirittura un articolo, ironico e beffardo: “Chi ha ucciso quelle due mosche, e perché? Occorre un’autopsia?”. Indiziata è la sedia che Fischer usa durante l’incontro: passata ai raggi X rivela la presenza di un misterioso oggetto di metallo. Alla presenza di un chimico e di un ingegnere elettronico, la sedia viene smontata pezzo per pezzo dalla polizia: l’oggetto non identificato si rivela essere un mini cacciavite, dimenticato con tutta probabilità in fase di montaggio. Il match prosegue ancora ma è ormai segnato: Fischer si laurea campione del mondo. il Ministro degli Interni sovietico dell’epoca, Nikolai Shchelokov, con spirito assai poco liberale chiederà in seguito ai suoi: “Come mai avete ceduto lo scettro a un americano? Se fosse per me, arresterei chiunque si trovasse con Spasskij a Reykjavík”.

Le storie degli scacchi sono così: si svolgono sulla scacchiera, ma anche oltre i limiti della scacchiera. L’ambizione di ogni giocatore di scacchi è di starsene tra le sessantaquattro caselle e ritrovare in quelle il mondo intero. Il mondo, dal canto suo, non manca di far capolino e porre agli scacchisti problemi di natura non scacchistica, di cui loro, gli scacchisti, farebbero volentieri a meno. E’ il destino di ogni cornice, di provare a circoscrivere e ritrovarsi invece inscritta. Lo stesso Carlsen, che pure qualche buona ragione di dubitare sembra averla, sta probabilmente su un crinale del genere. In altri tempi, forse, avrebbe tirato dritto tenendosi per sé i dubbi: tanto vinco lo stesso. Ma oggi, non più convinto di doversi dedicare totalmente agli scacchi, è tanto più sollecitato a reagire se qualcosa, sulla scacchiera, sfugge al suo assoluto dominio. L’affare di St. Louis resterà così, nella carriera di Carlsen, come un piccolo segnale. Solo fra qualche anno sapremo di cosa.


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