CIAMPI, BANCHIERE GRIGIO CHE SOGNAVA LA"MORAL SUASION"
Il decimo Presidente, come il primo Enrico
De Nicola, i partiti lo vanno a prendere
fuori dal Parlamento. È Carlo Azeglio
Ciampi, il tecnico di pronto intervento che
nel 1993 è divenuto premier e ha salvato per pochi
mesi la reputazione della politica screditata da
Tangentopoli e da Mafiopoli; e che nel 1996-'98,
come ministro del Tesoro del primo governo Pro-
di, ha salvato il Paese dalla deriva verso il Terzo
Mondo, agganciandola miracolosamente all’Eu -
ropa della moneta unica.
L’Italia che nel 1999 sa-
luta il presidente Scalfaro dopo sette anni di Qui-
rinale ha appena visto naufragare la Bicamerale,
tentativo maldestro e suicida del centrosinistra di
giungere alla “normalità” tanto cara a Massimo
D’Alema con un compromesso al ribasso sulla ri-
forma della Costituzione con l’eversore incosti-
tuzionale per antonomasia: Silvio Berlusconi. Il
quale, subito dopo aver perso rovinosamente le
sue seconde elezioni nel ‘96 e aver ottenuto dal
Conte Max l’insperata legittimazione di padre co-
stituente, anzi ricostituente, ha portato a spasso il
centrosinistra per due anni, costringendolo a sna-
turarsi in “patti della crostata” in casa Letta e in
progetti neocraxiani sul presidenzialismo e con-
tro l’indipendenza della magistratura. Poi, sul più
bello, li ha mollati a metà del guado e ha fatto sal-
tare il tavolo della Bicamerale, avendo capito che
il suo vero obiettivo finale – l’amnistia per salvarsi
dai processi – non glielo può regalare nemmeno la
sinistra più masochista del pianeta, terrorizzata
dalla rivolta dei suoi elettori. In compenso ha ot-
tenuto un risultato mica da ridere: indebolire il
governo Prodi, che insieme a Scalfaro alla Bica-
merale ha sempre guardato con sospetto, fino a
farlo cadere per mano di Bertinotti e a rimpiaz-
zarlo nell’ottobre ’98 con una parodia di governo
D’Alema sostenuto dai ribaltonisti al seguito di
Cossiga e Mastella. Il viatico ideale per una riscos-
sa che solo due anni prima pareva follia.
Ma se la controriforma della seconda parte della
Costituzione va in fumo dopo due anni di inutile
lavoro, l’asse D'Alema-Berlusconi resta in piedi
per eleggere il nuovo capo dello Stato, che i due
compari vogliono scegliere insieme, convinti cia-
scuno di poterlo usare per mettere nel sacco l’al -
tro. Max e Silvio non hanno dubbi: il nuovo capo
dello Stato deve descalfarizzare il Quirinale, dun-
que non può essere un politico abile nella ma-
novra di palazzo come lo era il Presidente uscente.
Occorre – come scriverà Marzio Breda ne La guer-
ra del Quirinale (ed. Garzanti) – “un defibrillatore
istituzionale, un dissuasore” che spenga gli ardori
della battaglia politica. Un anestesista, un emol-
liente che consenta ai partiti di riprendere in ma-
no il pallino della politica, troppo a lungo com-
missariata. “Una figura istituzionale all’insegna
della terzietà”, auspica Gianni Letta col suo lin-
guaggio alla vaselina.
L’inciucio tra B. e D’Alema
Dunque è subito chiaro a tutti che i candidati di
bandiera ai blocchi di partenza, nella primavera
‘99, sono specchietti per le allodole. Berlusconi
pronuncia due nomi: Amato, l’ex craxiano che fi-
no a due anni prima è stato presidente dell’An -
titrust da lui stesso nominato e perfetto garante del
trust Mediaset; e Bonino, eletta con Forza Italia nel
’94 e sempre rimasta nell’orbita del centrodestra,
anche perché lo stesso Cavaliere l’ha scelta come
commissario europeo insieme a Monti. Il centro-
sinistra non gradisce: Amato è ancora sotto scacco
di Craxi, che ogni tanto distilla veleni sul suo pas-
sato socialista con i famosi fax da Hammamet; e la
Bonino non è ancora ascesa nell’Olimpo progres-
sista. Così il centrosinistra ribatte con le candi-
dature di tre ex democristiani: Rosa Russo Iervo-
lino, ex presidente del Ppi, fedelissima di Scalfaro,
dunque vista come il fumo negli occhi dal Cava-
liere; Nicola Mancino, presidente del Senato, ex
sinistra Dc e ora Ppi; e Franco Marini, ex leader
della Cisl, poi passato alla politica attiva con An-
dreotti, anche lui confluito nel Ppi. Ma nessuno
dei tre incontra i favori della destra. E Prodi, altro
papabile, viene spedito alla Commissione Ue.
Ciampi invece va bene a tutti. Tant’è che il 13 mag-
gio, quando le Camere iniziano a votare, viene
eletto plebiscitariamente al primo scrutinio. Co-
me Cossiga. Lo votano centrodestra e centrosini-
stra, tranne la Lega Nord e Rifondazione comu-
nista. Con 707 voti su 1010, contro i 72 del lum-
bard Luciano Gasperini e i 21 del rosso antico In-
grao (scelto dai rifondatori). Raccolgono consensi
anche la Iervolino (16), la Bonino (15), l'imputato
per mafia Andreotti (10) e persino il latitante Cra-
xi (6). Sul Co r r i e re , Montanelli saluta con sollievo
non tanto il nuovo Presidente, quanto lo scampato
pericolo di veder eletti i suoi concorrenti demo-
cristiani e dunque rinascere la Balena Bianca: il
“mostro senza volto che m’incalza con la logorrea
del presidente uscente (Scalfaro, ndr), aggravata
dall’accento irpino di Mancino e dalle corde vocali
della signora Iervolino”. L’idea di un capo dello
Stato più taciturno, dopo le intemperanze di Per-
tini, le picconate di Cossiga e le omelie di Scalfaro,
rassicura più di un italiano. E Ciampi – scrive il
vecchio Indro – promette bene almeno da questo
punto di vista: “Non è di un grande statista che
stiamo parlando, ma di un ‘commesso dello Stato’,
come si chiamano in Francia gli alti e ringhiosi
guardiani della pubblica amministrazione, aller-
gici alle manovre politiche... Impacciato parlatore,
in aula non brilla. Ma non brillava nemmeno Ei-
naudi, come non aveva mai brillato Giolitti”. Il
quale, “quando non aveva più nulla da dire, aveva
finito di parlare”.
Chissà, forse in un altro contesto Ciampi avrebbe
davvero tenuto fede a queste attese. Di sé que-
st’uomo in grigio, anzi in bianco e nero con le
sopracciglia folte ad accento circonflesso, dice:
“Soffro di agorafobia, prendere la parola in una
piazza o davanti a platee troppo vaste mi blocca”.
Ma dovrà fare violenza a se stesso. Perché, dopo
poco più di un anno di tregua, si ritrova subito in
mezzo a un’infuocata campagna elettorale: quella
del 2001, col ritorno di fiamma di Berlusconi. Se-
guita da un quinquennio terribile fatto di leggi
vergogna, norme ad personam, attacchi alla Co-
stituzione e alla magistratura, scontri con la “sua”
Europa e incidenti internazionali. Ed è costretto,
lui che non ama parlare in pubblico, men che me-
no a braccio, a esternare quasi ogni giorno: se non
come i tre precedessori, quasi.
Nato a Livorno nel 1920 da un negoziante di ottica
e una insegnante di musica, sposato con Franca
Pilla, Ciampi ha studiato dai gesuiti e poi alla Nor-
male di Pisa. Ha due lauree, in Filologia classica e
in Giurisprudenza. Credente ma laico (e, secondo
qualche maligno, anche massone), si definisce un
“liberale crociano”: combattendo in guerra come
sottotenente degli autieri in Albania e poi in
Abruzzo, ha conosciuto il suo maestro Guido Ca-
logero, filosofo antifascista e liberalsocialista, che
l’ha avvicinato al Partito d’azione. È questa l’unica
militanza politica del giovane Ciampi, insieme al-
l’iscrizione alla Cgil. Nel 1946, dopo aver inse-
gnato per un po’ Lettere al liceo, dà il concorso per
la Banca d’Italia, dove resterà 47 anni percorren-
do tutto il cursus honorum, da impiegato a gover-
natore (per 14 anni, dal 1979 al 1993). È lì che
matura uno stile sobrio ed essenziale e un metodo
di lavoro fondato sulla “squadra”, che metterà a
frutto sul Colle con un’équipe di consulenti esterni
(i “Ciampi boys”) di cui fanno parte Andrea Man-
zella, Sabino Cassese, Mario Draghi, Maurizio Vi-
roli, Tommaso Padoa-Schioppa e il solito, eterno
Tonino Maccanico.
Sì e no alle leggi vergogna
Una sobrietà tecnica che non gli impedirà qualche
concessione alla retorica patriottarda, senza pla-
teali baci alla bandiera e lacrime in pubblico, con
giuste campagne come quella per rivalutare la fe-
sta del 2 giugno. Ma pure con qualche indulgenza
di troppo al nazionaltrombonismo. Tipica, in
questo senso, la battaglia per far cantare l’inno di
Mameli ai calciatori della Nazionale. E anche
un’esternazione nel giorno dell’ottantesimo
compleanno: “Nel ’93, da presidente del Consi-
glio, andai in visita di Stato in Germania. Ero sul
palco al fianco del cancelliere Kohl, e fu issato il
tricolore mentre la banda suonava l’inno di Ma-
meli. Lo confesso, un brivido mi corse lungo la
schiena e mi tremarono le gambe”. Figurarsi la
faccia di Ciampi, sul palco della prima alla Scala,
quando il maestro Riccardo Muti rifiuta di ese-
guire l’inno nazionale “perché si tratta di una
marcetta incompatibile con Beethoven”.
Il suo primo atto politico è, nel 2000, la nomina di
Giuliano Amato per rimpiazzare D’Alema, di-
missionario dopo la rovinosa disfatta alle elezioni
regionali. Poi, appunto, torna Berlusconi. Sulle
prime Ciampi si illude di fronteggiare i suoi con-
tinui strappi istituzionali, costituzionali e inter-
nazionali con la moral suasion: qualche fervorino
in via riservata. Come quello che consiglia al Ca-
valiere di rinunciare a nominare ministro della
Giustizia Roberto Maroni, condannato in via de-
finitiva per aver picchiato un poliziotto durante
una perquisizione nella sede della Lega, e dirot-
tato al Welfare. Ma ben presto deve cambiare re-
gistro: sin da quando, a fine 2001, il Cavaliere di-
chiara guerra all’Europa con la legge sulle roga-
torie e il rifiuto di ratificare la legge sul mandato di
cattura europeo, perdendo per strada il ministro
degli Esteri, il tecnico, Renato Ruggiero e assu-
mendo su di sé l’interim della Farnesina. Ciampi
fa buon viso a cattiva sorte anche con la legge sul
falso in bilancio e con la Cirami sul legittimo so-
spetto, mentre le piazze si riempiono di giroton-
dini, scudi umani contro il bombardamento alle
procure. Ma nel 2003 deve rassegnarsi: la m o ra l
suasion, con un tipaccio come il Caimano, non
serve a nulla. Del resto, agli scenari di guerra è
abituato: non solo per la sua esperienza di sot-
tufficiale, ma anche perchè porta ancora le stim-
mate della notte fra il 27 e il 28 luglio ‘93, quando
le bombe mafiose polverizzavano a suon di bom-
be il Pac di Milano, le basiliche romane del Ve-
labro e del Laterano, e i centralini di Palazzo Chigi
andavano in tilt, facendogli temere il golpe.
I soliti dossier
Dunque, dal 2003, il Presidente comincia a rispe-
dire al mittente le leggi più incostituzionali: quella
sui tribunali minorili e soprattutto quelle sulla tv
(la Gasparri) e contro la giustizia (la Castelli sul-
l’ordinamento giudiziario e la Pecorella che abo-
lisce l’appello contro le assoluzioni). E così diven-
ta anche lui, come Scalfaro, un nemico da abbat-
tere, un “ribaltonista”, un “comunista maschera-
to”. Gli house organ di Arcore e dintorni estrag-
gono i dossier pronti da tempo: allusioni al figlio
scavezzacollo e ai suoi pasticci finanziari; e so-
prattutto all’operazione Telekom Serbia, il con-
troverso acquisto della compagnia telefonica di
Belgrado dalle mani di Milosevic ai tempi del go-
verno Prodi, quando Ciampi era al Tesoro. Il cen-
trodestra istituisce una commissione parlamen-
tare ad hoc, trasforma un truffatore (il celebre Igor
Marini) in supertestimone, raccoglie accuse false
a Prodi, Fassino e Dini. Ma Claudio Scajola e Car-
lo Taormina fanno sapere che sono pronti a tirare
in ballo anche il Presidente, se farà lo schizzinoso
sulle leggi del Capo. Lui non si lascia intimidire
(anche se poi firmerà senza batter ciglio altre ver-
gogne come la Bossi-Fini, il lodo Schifani, la
ex-Cirielli e le guerre in Afghanistan e in Iraq).
Così come quando un’orda di leghisti guidati da-
gli “onorevoli” Borghezio, Salvini e Speroni, ac-
coglie la sua visita al Parlamento europeo al grido
“Basta euro, Padania libera, Italia vaffanculo”. Sul
momento, Ciampi minimizza, anche per non en-
fatizzare la figuraccia italiana in Europa. Ma si
prenderà una sonora rivincita il giorno dopo le
sue dimissioni, nella primavera del 2006, annun-
ciando da semplice senatore a vita il suo No al
referendum confermativo sulla controriforma
costituzionale della “devolution” targata Carroc-
cio e centrodestra. Qualcuno dirà: troppo poco,
troppo tardi. Ma solo perché non ha ancora visto
all’opera il suo successore.
MARCO TRAVAGLIO - IL F.Q. 17/4/2013
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