Da Einaudi a Gronchi: ovvero come
rimpiazzare un gentiluomo con
un magliaro. Nella primavera del
1955, quando si tratta di eleggere
il terzo presidente della Repubblica, solo i li-
berali spingono per la riconferma del presi-
dente uscente. E l’interessato – ansioso di tor-
nare tra i filari langaroli della sua Dogliani –
non è tra questi: “Sono troppo vecchio”. Sulle
prime, in pole position nella corsa al Colle c’è
una personalità di tutto rispetto: il presidente
del Senato Cesare Merzagora, 57 anni, mi-
nistro del Commercio estero con De Gasperi,
senatore senza tessera eletto come indipen-
dente nella Dc, economista di tendenze li-
berali. È a lui che, nella primavera del 1955,
pensano Amintore Fanfani, da un anno se-
gretario dello Scudocrociato, e Mario Scelba,
presidente del Consiglio. E la cosa pare fatta.
Senonché, nel ventre molle della Balena Bian-
ca, covano rancori mai sopiti dall’ultimo con-
gresso-terremoto di Napoli (giugno 1954),
dove l’Amintore s’è impossessato del partito
stracciando la destra interna, riunita intorno a
Giulio Andreotti e Guido Gonella. E non c’è
più nemmeno il prestigio di De Gasperi, mor-
to il 19 agosto 1954, a tenere insieme quel
ballatoio di comari.
Così, il 28 aprile, quando il presidente della
Camera Giovanni Gronchi convoca la seduta
plenaria del Parlamento per eleggere il suc-
cessore di Einaudi, ecco subito il colpo di sce-
na: il favoritissimo Merzagora non va oltre i
228 suffragi, benché i democristiani presenti e
votanti siano 380. Prende più voti (308) il
vecchio Ferruccio Parri, sostenuto dai social-
comunisti. Einaudi ne raccoglie 120, Gronchi
30. Merzagora vorrebbe ritirarsi, ma Fanfani
lo prega di non farlo, sicuro che poi anche il
Psi e il Pci confluiranno su di lui. Invece gli
antifanfaniani puntano in gran segreto su
Gronchi, pisano di Pontedera, classe 1887,
uno dei fondatori del Partito popolare, già
sottosegretario del primo governo Mussolini,
ora dichiaratamente ostile al centrismo de-
gasperiano e alla Nato, nonché fautore del-
l’apertura ai socialisti. Paradosso dei parados-
si: la destra Dc sta dalla parte di un sinistro,
mentre a volere Merzagora – conservatore,
filoamericano, amatissimo dagli industriali –
è la sinistra del partito.
Merzagora, lo sconfitto
Nel pomeriggio, secondo scrutinio: Merza-
gora, anziché salire, scende ancora (a 225).
Einaudi scivola a 80. E Gronchi balza a 127.
Ma il dato più eclatante sono le 332 schede
bianche: socialisti, comunisti, missini, mo-
narchici e democristiani antifanfaniani. L’A-
mintore capisce l’antifona: le opposizioni in-
terne si sono alleate con quelle esterne di ogni
colore per Gronchi e contro di lui. Infatti in
serata, al terzo scrutinio, Gronchi passa in
testa con 281 voti contro i 245 di Merzagora.
Le schede bianche, 195, sono pronte a saltare
sul carro del vincitore alla quarta tornata
(quando è sufficiente la maggioranza sem-
plice). Quella che segue è una notte dei lunghi
coltelli. Il vertice della Dc, capitanato da Scel-
ba, va a trovare Gronchi pregandolo di ri-
tirarsi: “La tua candidatura – gli dice Scelba –
rischia di apparire come il preludio a una svol-
ta antiamericana e antiatlantica della nostra
politica estera”. Gronchi monta su tutte le
furie: “Ma come, mi avete eletto presidente
della Camera, e ora scoprite che non vado
bene come presidente della Repubblica?”. Fi-
nisce a male parole. Poco dopo il vicesegre-
tario Dc Mariano Rumor telefona a Merza-
gora per informarlo che il partito ha cambiato
cavallo. Fanfani tenta ancora le carte Piccioni
e Segni, ma nessuno gli dà retta. Ormai non gli
resta che far buon viso a cattivo gioco, pre-
sentando Gronchi come il candidato di tutto il
partito, per rendere superflui i voti dei co-
munisti.
L’indomani Gronchi, sempre affiancato dal
presidente del Senato Merzagora, comincia a
estrarre le schede dall’urna e a leggere infinite
volte il proprio nome. Al 422° “Gronchi”,
scoppia l’applauso dell’aula: il quorum è rag-
giunto. Gronchi viene eletto presidente con
658 suffragi (mezza Dc, Psi, Pci, Msi, mo-
narchici), contro i 70 di Einaudi; 92 le schede
bianche, 2 le nulle, 11 i voti dispersi. L’a m-
basciatrice americana Claire Booth Luce, fe-
rocemente anticomunista, abbandona stizzita
la tribuna: “He is a bloody neutralist”, è un fot-
tuto neutralista. Giancarlo Pajetta vede Scelba
che si contorce per la rabbia e, unico nel-
l’emiciclo, non batte le mani al vincitore: bef-
fardo, gli fa portare da un commesso un bic-
chiere di Cynar, l’aperitivo al carciofo contro
il logorio della vita moderna. “Io non l’ho
ordinato”, replica a muso duro il premier, “se
ne vada”. In aula si ride di gusto.
La cerimonia d’insediamento di Gronchi è
quanto di più pomposo si possa immaginare:
nulla a che vedere con la frugalità dei due
predecessori. La bionda e maestosa first lady,
donna Carla Bissatini, sua seconda moglie, di
25 anni più giovane di lui, troneggia al centro
della tribuna d’onore. Quello di Gronchi è un
vero “discorso della corona”, tutto politico.
Una bomba. Invita la maggioranza a “far en-
trare nell’edificio dello Stato le masse lavo-
ratrici” (cioè il Pci e il Psi). Tuona contro “la
dittatura dei partiti” e “l’oligarchia burocra-
tica” che “minacciano la libertà del Parlamen-
to”.
Gran fautore dell’invadenza dello Stato nel-
l’economia, come il suo amico Enrico Mattei
(presidente dell’Eni e foraggiatore occulto
dell’ala antiamericana e filosocialista della
Dc), Gronchi invita a “contrastare il dominio
delle multinazionali in Italia”, ad “attuare una
vera politica di programmazione democratica
ed eliminare i dislivelli sociali persistenti nel
Paese”. Mezz’ora di messaggi tutt’altro che
cifrati ad amici e nemici, come a dire: adesso
comando io. Ventinove interruzioni di ap-
plausi scroscianti dai banchi delle sinistre, che
alla fine intonano l’Inno di Mameli. Saragat,
furibondo, sbotta: “Abbiamo finalmente an-
che noi il nostro Peròn italiano. Il Peròn di
Pontedera...”. Si rivelerà buon profeta.
Tanto aperto con le critiche era stato Einaudi,
tanto è intollerante Gronchi. Ne fanno le spe-
se Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello, che
una sera, nel programma Rai Un due tre, ac-
cennano a una parodia di un incidente oc-
corso al presidente qualche giorno prima nel
palco d’onore della Scala di Milano, e rigo-
rosamente censurato dai principali giornali e
dai tg: presenziando a un concerto accanto al
generale Charles de Gaulle, a causa di un com-
messo distratto che non gli ha avvicinato la
poltrona alle terga, Gronchi è precipitato a
terra fra i risolini degli spettatori nei palchi
circostanti. Tognazzi e Vianello mimano la
caduta, senza far nomi né dire una parola. Ma
tanto basta a scatenare le ire del Quirinale e
indurre la Rai a chiudere il programma.
“Con Gronchi – scrive il giornalista Enrico
Mattei, solo omonimo del boss dell’Eni – il
Quirinale diventa Palazzo”. Un palazzo di in-
trighi, complotti e malversazioni. Uno dei
suoi “consigliori” più ascoltati è padre An-
tonio Messineo, gesuita della Civiltà cattolica,
vero artefice della congiura del 28-29 aprile.
Ottenuto il suo scopo, il gesuita intrigante
passa alla cassa e persuade Gronchi a rove-
sciare il governo Scelba. Così, quando Scelba
va al Quirinale per “portarti il mio saluto au-
gurale e le mie dimissioni formali”, il pre-
sidente lo gela: “Perché formali?”. “Perché il
mio governo gode ancora della fiducia delle
Camere”, è la risposta.
Scelba capisce che è un preavviso di sfratto.
Un mese dopo Gronchi chiede le dimissioni
del governo con la scusa che il Pri ha ritirato
l’appoggio esterno. Scelba rifiuta: “I repub-
blicani non sono determinanti, abbiamo an-
cora la maggioranza”. Ma la segreteria Dc, per
evitare lo scontro, manda il capo dei deputati
Aldo Moro a invitarlo alla resa. Gronchi, per
sommo sfregio, dà l’incarico a due “destri”
come Giuseppe Pella e Adone Zoli. Poi, dopo
le elezioni del 1958, tocca a Fanfani. Il suo
governo Dc-Psdi promette bene, ma viene re-
golarmente impallinato da una pattuglia di
franchi tiratori pilotati dal presidente. Il quale
smania di rispedire il Paese alle urne, per poi
patrocinare il tanto sospirato centrosinistra
col Psi di Pietro Nenni. Fanfani cade, sca-
ricato da alcuni socialdemocratici passati al
Psi per ordine di Gronchi. Ma stavolta la Dc
tiene duro e designa Segni, della destra del
partito. Il presidente, pur di non capitolare,
tenta addirittura di rinviare Fanfani alle Ca-
mere. Ma l’Amintore si rende irreperibile e
alle chiamate del Quirinale fa rispondere la
moglie, Bianca Rosa: “Mio marito non c’è e
comunque non intende parlare col presiden-
te”.
Tangentopoli ante litteram
Nel 1960 un altro memorabile pasticcio: la
nomina a premier del suo fedelissimo Fer-
nando Tambroni, della sinistra Dc, per un
“governo del presidente” che apra a sinistra.
Risultato: Tambroni ottiene la fiducia solo
con l’appoggio del Msi, scatenando scontri di
piazza da Genova a Licata a Reggio Emilia
(qui la polizia spara sui manifestanti e ne am-
mazza cinque). Ed è costretto a dimettersi,
richiamando in servizio Fanfani. Fine degli
intrighi presidenziali, almeno in politica in-
terna. Perché ogni viaggio di Gronchi all’e-
stero si trasforma in incidente diplomatico:
una volta caldeggia con gli Usa la riunifica-
zione delle Germanie in un unico Stato neu-
trale, senza nemmeno avvertire il governo.
Un’altra si reca, primo capo di governo oc-
cidentale, in visita a Mosca, ospite della dacia
di Krusciov; ma le sue critiche al Cremlino
provocano imbarazzi nel governo.
Le sue amanti, a Roma e a Pontedera, le co-
nosce anche il popolino. I suoi scandali – m a-
novre finanziarie poco chiare, rapporti occulti
con l’Eni, uso disinvolto del denaro pubblico
– sono sulla bocca di tutti, e su molti giornali.
Indro Montanelli, sul Corriere della Sera, sma-
schera i più indecenti in una serie di memo-
rabili inchieste che fanno tremare il Colle e il
ras dell’Eni Mattei, “l’incorruttibile corrutto-
re”. Tipico il caso di un giovane deputato to-
scano – secondo le malelingue, suo figlio na-
turale – che rischia la bancarotta: Gronchi
mobilita tutti gli amici ricchi e potenti che,
però, di fronte alla cifra stratosferica del “b u-
co”, si tirano indietro. Alla fine il consulente
costituzionale del Quirinale, Francesco Co-
sentino, mette le cose a posto intimando a una
banca del Sud di accettare una cambiale del
giovanotto che alla regolare scadenza veniva
continuamente rinnovata. È il 1960. Nasce
ufficialmente, all’ombra del Quirinale, Tan-
gentopoli.
(MARCO TRAVAGLIO - IL F.Q. 11/4/2013)
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