Giovanni Leone


LEONE, IL GIURISTA INCOMPRESO CHE FACEVA LE CORNA

Romperò i garretti ai due cavalli di raz-
za”. È il 20 dicembre 1971 quando
Ugo La Malfa tuona nei corridoi di
Montecitorio, pronto a tutto pur di
impallinare i candidati forti della Democrazia cri-
stiana: Amintore Fanfani e Aldo Moro. Con l’aiu -
to degli altri partiti laici, nonché dei soliti cecchini
scudocrociati, ce la farà. Perché quello del 1971 è
un Natale presidenziale ancor più tormentato di
sette anni prima: stessi balletti, stesse divisioni
nella Dc, stessi candidati in lizza: Fanfani, Leone,
Saragat. Con l’aggiunta di Moro.



Dopo il laico Saragat, il partito cattolico rivendica
il Quirinale per sé. Ma, come al solito, si frantuma
in mille pezzi. Da una parte l’ala moderata do-
roteo-andreottiana, al centro i fanfaniani, a sini-
stra i filocomunisti Moro con la sua “strategia del-
l’attenzione” e De Mita col suo “arco costituzio-
nale”. Arnaldo Forlani, il segretario del partito,
uomo di Fanfani, non sa che pesci pigliare, ma fa
onore al nomignolo che gli appiopperà Giampao-
lo Pansa: “Coniglio Mannaro”. Mandare sul Colle
un rappresentante della sinistra, tipo Moro, si-
gnificherebbe regalare un’altra vagonata di voti al
Msi, trionfatore delle recenti elezioni ammini-
strative (più 7%) a spese della Dc (meno 7%). E
mandarci un uomo di destra sortirebbe un’ana -
loga emorragia verso il Pci.
Fallito ogni tentativo di trovare un candidato co-
mune con i partiti alleati, la Dc – in una burra-
scosa riunione dei gruppi parlamentari – opta per
il solito Fanfani. “Il Rieccolo”, come lo chiama
Indro Montanelli, passa ancora per un “progres -
sista”, anche se ha appena condotto (e rovino-
samente perduto) la battaglia contro il divorzio a
braccetto col Vaticano e col leader missino Gior-
gio Almirante. Per quanti voti l’Amintore pre-
valga su Moro in quella notte dei lunghi coltelli,
non si saprà mai: la votazione avviene a scrutinio
segreto. Pochi, comunque: alla fine infatti le sche-
de vengono bruciate, come nei conclavi, per di-
struggere le prove dell’ennesima spaccatura.
Il 9 dicembre il Parlamento in seduta comune co-
mincia a votare. Ed emerge subito chiarissimo
che Fanfani non ha dietro di sé tutto il partito:
prende appena 388 voti, contro i 397 del socialista
Francesco De Martino, votato compattamente
dai socialcomunisti. E negli scrutini successivi il
divario, anziché ridursi, aumenta. I socialisti,
col segretario Giacomo Mancini, non mollano
su De Martino, anche se Bettino Craxi – lo scal-
pitante pupillo di Nenni – lavora sottobanco
per Moro. Ma di Moro non vuol sentire parlare
La Malfa, che chiede espressamente un laico, o
al massimo un cattolico “poco colorito”. Il Pli è
fermo sul suo segretario, Giovanni Malagodi, e
così il Psdi, tetragono sulla rielezione di Sara-
gat, che ci tiene tanto e ne sta facendo una ma-
lattia. I comunisti continuano a votare De Mar-
tino, pronti però a intese segrete con la Dc, nella
convinzione che stavolta Piazza del Gesù non
ricorrerà al soccorso nero (cioè ai voti missini).
E qui si sbagliano di grosso.
Le 11 fumate nere di Fanfani
La confusione regna sovrana. In odio a Fanfani, i
deputati del manifesto depositano nell’insalatiera
schede con la scritta “Fanfascista” o con la rima
baciata: “Maledetto nanetto, non verrai mai elet-
to”. All’undicesima fumata nera, Fanfani capisce
l’antifona e si ritira. Per l’ennesima volta lo Scu-
docrociato è costretto a cambiare cavallo a metà
della corsa. E, in attesa di trovare un nuovo can-
didato, si astiene. Lo stesso fanno, tra le proteste
delle sinistre, i missini, i monarchici, i repubbli-
cani, i socialdemocratici e i repubblicani: una va-
sta area di parcheggio – tutta di centrodestra – che
rappresenta la maggioranza dell’aula e sembra
aspettare soltanto un uomo di vasto consenso. Ma
le sinistre non lo capiscono e chiedono ingenua-
mente alla Dc i voti per Nenni, disposte al mas-
simo ad appoggiare Moro. Proprio quel che non
vogliono il Pri e il Psdi, che propongono in al-
ternativa Leone, Rumor o Paolo Emilio Taviani. Il
secondo e il terzo declinano subito. Resta Leone.
Nato a Napoli nel 1908, figlio di uno dei fondatori
del Partito popolare, insigne docente di proce-
dura penale e principe del foro, di orientamento
monarchico, iscritto in gioventù al Partito fasci-
sta e poi alla Dc fin dal 1944, deputato fin dalla
Costituente (fu relatore alla commissione dei Set-
tantacinque per il titolo “Magistratura”), vicepre-
sidente eppoi presidente della Camera, due volte
presidente del Consiglio nonché senatore a vita,
Leone è un notabile che non s’è mai impegolato
nelle beghe di corrente. Passa per un uomo super
par tes e la sua fama di conservatore basta e avanza
a mettere la sordina ai dissensi, dovuti essenzial-
mente alla sua ostentata, quasi sfacciata napole-
tanità: scongiuri e “corna” ad ogni pie’ sospinto,
sfrenate tarantelle e cantate di O’ Sole mio anche in
cerimonie ufficiali, intemperanze non proprio
protocollari allo stadio San Paolo quando gioca il
Napoli, e un’inflessione dialettale quasi molesta.
Ma il suo rigore di giurista sembra fatto apposta
per un partito che, nel caos dell’Italia dei primi
anni 70, vuole ridarsi un’immagine di law and or-
der. E recuperare i voti regalati alla destra.
L’interessato viene informato a cose fatte: mentre
gli “amici” lo designano per il Quirinale, Leone è
chiuso in casa con la bronchite. È qui che Forlani,
i capigruppo Giulio Andreotti e Giovanni Spa-
gnolli e il presidente del partito Benigno Zacca-
gnini gli portano la notizia. Lui prende tempo:
memore del “supplizio cinese” di sette anni pri-
ma, quando alla fine la spuntò Saragat, vuole pri-
ma sentire gli alleati laici. A La Malfa il suo nome
va bene, al Psdi pure e anche i liberali ci stanno.
I socialisti tuonano contro “l’ennesima candi-
datura di centrodestra”, i comunisti si accoda-
no. Ragion per cui anche il Msi si associa a Leo-
ne. Il quale accetta e l’indomani, 23 dicembre,
manca il quorum per un solo voto: 503 voti con-
tro gli almeno 504 necessari. Ma lo ottiene alla
vigilia di Natale, con appena 13 voti di scarto
(518 su 996). Una maggioranza risicatissima
(51.4%) e ultramoderata, la sua: Dc, laici, Msi.
Lui, a 63 anni, è il più giovane presidente della
Repubblica: quello eletto dopo il maggior nu-
mero di scrutini: ben ventitré.
L’epilogo della votazione decisiva l’ha seguito dal
suo ufficio in Senato, alla tv. Tentennerà un po’
prima di accettare. L’ora è grave e gliene dà la pro-
va un’allusiva lettera che gli viene recapitata un
minuto prima del voto. “Nella mia qualità di se-
gretario organizzativo di una potente Istituzione
riservata, mi pregio informarla che abbiamo de-
liberato di far convergere sul suo nome i voti di
tutti i nostri Grandi Elettori”. Firmato: Licio Gel-
li. La potente Istituzione riservata è la loggia Pro-
paganda 2 del Grande Oriente d’Italia, detta P2. E
Gelli ne è il Maestro Venerabile.
L’elezione di Leone scatena il pandemonio a si-
nistra. Il manifesto lo definisce “il Segni napo-
letano”, per via del determinante appoggio mis-
sino. E quando si presenta alle Camere per l’i n-
sediamento, i comunisti l’accolgono con lanci di
monetine. Pajetta scaraventa un sacchetto pieno
di 10 lire addosso a Ugo La Malfa, antifascista ma
sponsor di un presidente eletto coi voti decisivi
dei fascisti. Poco importa se il primo discorso del
presidente Leone, nonostante il linguaggio ot-
tocentesco, è un capolavoro di equilibrio giuri-
dico e di osservanza costituzionale: “Non spetta
a me formulare programmi o indicare soluzioni.
Solo vigilare sul rispetto della Costituzione”.
Purtroppo alle parole non sempre seguiranno i
fatti. Leone darà spesso l’impressione di acco-
darsi agli ordini del suo partito, soprattutto del-
l’uomo forte Giulio Andreotti.
Con l’elezione di Leone, il centrosinistra è in fran-
tumi. La Dc spinge per le elezioni anticipate e Leo-
ne si adegua, senza scaldarsi troppo per salvare la
legislatura. Prima di sciogliere le Camere (è la pri-
ma volta, nella storia repubblicana), incarica il di-
vo Giulio per un bicolore di minoranza Dc-Pli,
destinato a sicura bocciatura, ma che consente al-
lo Scudocrociato di gestire le elezioni con un go-
verno tutto suo. Gli anni che seguono sono tra i
più burrascosi della storia della Repubblica. L’I-
talia fuori dal serpente monetario europeo
(1973), il ritorno di Fanfani alla segreteria Dc e
l’ultimo rantolo del centrosinistra (governo Ru-
mor), il referendum sul divorzio e le stragi di Bre-
scia e dell’Italicus (1974), il crollo del governo
Moro-La Malfa (1975). Il Presidente scioglie di
nuovo le Camere per espresso desiderio della Dc,
che gestisce le elezioni con un altro monocolore
di minoranza. Poi l’inizio della lunga stagione del
compromesso storico, mentre l’Italia affonda nel
fango degli scandali e nel sangue del terrorismo.
Nel caso Lockheed viene coinvolto pure l'uomo
del Colle, tirato per i capelli come il possibile re-
gista (“Antelope Cobbler”) dell’operazione tan-
gentizia italo-americana. E poco importa se, anni
dopo, ne verrà totalmente scagionato.
La campagna scandalistica bipartisan, delle sini-
stre (soprattutto l’E s p re ss o e la giornalista Camilla
Cederna) e dell’agenzia OP di Mino Pecorelli,
prende di mira il Quirinale per la vita disinvolta
della famiglia Leone: voci di assegni a donna Vit-
toria (la bella e ingombrante first lady) e insinua-
zioni sulla di lei vita privata (tratte da un vec-
chio dossier del generale De Lorenzo); pette-
golezzi sull’allegra figliolanza (i “tre monelli”
Mauro, Roberto e Paolo); accuse di nepotismi
di corte; chiacchierate amicizie con i fratelli Le-
febvre d’Ovidio (protagonisti dell’affaire Loc-
kheed), il finanziere Rovelli, financo con lo Scià
di Persia. Il resto lo fa “don” Giovanni, con le
sue continue esibizioni di corna: davanti agli
studenti che lo contestano all’Università di Pisa
e davanti ai malati di colera negli ospedali di
Napoli, sempre sotto i flash e le telecamere. Ad
aggiungere discredito sulle istituzioni contri-
buiscono, nel 1978, il sequestro Moro e il re-
ferendum radicale contro il finanziamento
pubblico dei partiti (che lo osteggiano in bloc-
co, mentre il 43% degli italiani vota Sì).
Le accuse e l’i s o l a m e n to
Ci vuole un capro espiatorio: e chi meglio di Leo-
ne? Nel 1975 il Presidente s’è inimicato defini-
tivamente le sinistre, con un duro messaggio alle
Camere in cui le invitava ad applicare la Costi-
tuzione regolamentando il diritto di sciopero. E
ora è messo al tappeto dal feroce pamphlet della
Cederna, Giovanni Leone - Carriera di un Presidente
(in seguito denunciata dai figli di Leone e con-
dannata a per diffamazione, anche se non tutte le
sue accuse, soprattutto all’entourage leonino,
erano campate per aria) e dalla martellante cam-
pagna dei radicali capitanati da Marco Pannella
(che anni dopo, insieme a Emma Bonino, gli chie-
derà pubblicamente scusa). Lui vorrebbe que-
relare, ma il ministro della Giustizia del go-
verno Andreotti, il democristiano Francesco
Paolo Bonifacio, nega più volte l’a u t o r i z z a z i o-
ne a procedere per oltraggio. Il Pci di Enrico
Berlinguer chiede le sue dimissioni. E lo stesso
fa Ugo La Malfa, che pure aveva patrocinato la
sua elezione. A quel punto la Dc, sempre più
succube del Pci, non si accontenta di non di-
fenderlo, e platealmente lo scarica.
Andreotti e Zaccagnini vanno a trovarlo al Qui-
rinale il 15 giugno per invitarlo dolcemente a
sloggiare anzitempo. Leone vorrebbe ricordare
ad Andreotti che fu proprio lui a convincerlo a
non rispondere alle accuse, a non querelare i suoi
diffamatori: lo stesso Andreotti che ora, in base a
quelle accuse, gli dà il benservito. Ma non lo fa e se
ne va, sei mesi e due settimane prima della sca-
denza naturale del mandato. Ha già pronto il di-
scorso di commiato. E congeda sarcastico e fret-
toloso i due “amici”, ospiti più che mai sgraditi:
“Grazie, guagliò, così ora potrò guardarmi i Mon-
diali di calcio in santa pace”.


MARCO TRAVAGLIO - IL F.Q. 14/4/2013

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