Oscar Luigi Scalfaro



SCALFARO SUL COLLE PER 672 ELETTORI E 200 KG. DI TRITOLO 


La vita al Quirinale è una spaventosa e
solitaria traversata, ma per fortuna
ogni giorno che passa è uno in meno
da trascorrere qui dentro”. In questa
frase di Oscar Luigi Scalfaro, pronunciata in uno
dei tanti momenti difficili del suo settennato, c’è
la chiave per spiegare la solitudine, dunque le
bizze, metamorfosi e mattane di tanti presidenti
persi nelle 2mila stanze di quella che Marzio Bre-
da (La guerra del Quirinale, Garzanti) descrive co-
me “la reggia più grande e sfarzosa d’Europa”.



Il 1992 è iniziato, per i politici, sotto i peggiori
auspici. Il 17 febbraio, a Milano, è finito in car-
cere per tangenti il craxiano Mario Chiesa ed è
iniziata Mani Pulite. Il 13 marzo, a Palermo, Co-
sa Nostra ha aperto la guerra allo Stato assas-
sinando l’eurodeputato andreottiano Salvo Li-
ma, considerato traditore. Il capo della Polizia
Vincenzo Parisi avverte che c’è una lista di po-
litici destinati a morire anche loro ammazzati,
da Mannino a Vizzini, da Martelli ad Andreotti.
Il 6 aprile, dalle urne, il quadripartito che so-
stiene il VII governo Andreotti esce con le ossa
rotte, mentre la Lega di Bossi vola al 9% (sopra il
20 in tutto il Nord). Il 25 aprile Cossiga scende
dal Colle con due mesi di anticipo, lasciando i
suoi poteri presidenziali al supplente: il neopre-
sidente del Senato, Giovanni Spadolini. Il nuovo
governo è affare del nuovo capo dello Stato e –
prevede il Picconatore con una tetra maledizio-
ne – “saranno giorni terribili fino all’elezione del
mio successore”. Mai previsione si rivelerà più
azzeccata. Anzitutto perché i partiti, terrorizzati
dalle indagini giudiziarie e dalle vendette ma-
fiose, paiono un formicaio impazzito, senza bus-
sola. Saltati tutti i giochi e le marcature.
La scheda nei catafalchi
Il 13 maggio il Parlamento si riunisce in seduta
comune sotto la guida del neopresidente della
Camera, Scalfaro, e comincia a votare. I sospetti
incrociati fra i partiti sono tali che Pannella chie-
de a Scalfaro di garantire la segretezza del voto.
Scalfaro, a tempo di record, fa allestire dai fa-
legnami di palazzo due cabine di legno foderate
con un drappo rosso, subito ribattezzate “cata-
falchi” da Rutelli. Ma questo non basta al mis-
sino Carlo Tassi, sempre in camicia nera, che
urla “ladri!” a macchinetta contro i banchi della
maggioranza e agita un paio di manette. Scalfaro
tenta di zittirlo, quello replica che nessuna legge
lo prevede, allora il presidente dell’assemblea ri-
batte: “Ma non c’è nessuna norma che la ob-
blighi a ragionare! Comunque complimenti, lei
deve avere un polmone di riserva”. Nei primi tre
scrutini, quelli con maggioranza dei due terzi,
ciascun partito opta per il suo candidato di ban-
diera: Giorgio De Giuseppe (Dc), Nilde Iotti
(Pds), Giuliano Vassalli (Psi), Gianfranco Mi-
glio (Lega), Alfredo Pazzaglia (Msi), Paolo Vol-
poni (Rifondazione), Norberto Bobbio (Verdi),
Antonio Cariglia (Psdi), Tina Anselmi (Rete),
Salvatore Valitutti (Pli). Dalla quarta votazione,
scendono in lizza i big. L’accordo del Caf Cra-
xi-Andreotti-Forlani prevede che il primo torni
a Palazzo Chigi, mentre gli altri due se la vedano
fra loro per il Colle. Si parte col segretario Dc
Arnaldo Forlani, che al quinto scrutinio prende
479 voti e al sesto sale a 496: manca poco al quo-
rum dei 508. Ma dal sesto scrutinio il Coniglio
Mannaro comincia a scendere, impallinato dai
cecchini del suo partito e dei cosiddetti alleati. I
quali, insieme, dovrebbero totalizzare 540 voti: e
invece all’appello, per Forlani, ne mancano 80,
di cui almeno 50 dc. Sono gli uomini di An-
dreotti, abilmente pilotati dal suo factotum Pao-
lo Cirino Pomicino.
Il 17 maggio, spossato dall’altalena, Forlani an-
nuncia il ritiro. Sembra il gran giorno del Divo
Giulio, che attende da anni di aggiungere alla sua
collezione di poltrone l’unica che ancora gli
manca. Restano però da convincere i vedovi del-
l’Arnaldo, che sono tanti e non ne vogliono sa-
pere, preoccupati dallo strapotere andreottiano.
Il Pds di Achille Occhetto s’incunea nelle divi-
sioni scudocrociate e propone Giovanni Conso,
giurista cattolico super partes, presidente eme-
rito della Consulta. La Dc risponde picche. I so-
cialisti provano col loro giurista, Vassalli, e i re-
pubblicani con Leo Valiani. Invano. Bruciate in
poche ore anche le candidature di Norberto
Bobbio, Francesco De Martino e Mino Marti-
nazzoli. Riaffiora Vassalli con l’appoggio di un
pezzo di Dc, ma l’altro pezzo lo affonda defi-
nitivamente. Forlani, delegittimato una seconda
volta, si dimette pure da segretario Dc. Non resta
che una soluzione istituzionale: uno dei presi-
denti delle Camere, o Spadolini o Scalfaro. Per il
secondo si spende molto Pannella, in nome di un
ritorno alla Costituzione picconata da Cossiga.
Ma gli andreottiani obiettano che anche Giulio è
istituzionale (in quanto premier in p ro ro g a t i o ) e
buttano la palla in tribuna.
La bomba di Capaci
Nel pomeriggio di sabato 23 maggio, mentre
partiti e correnti ballano sul Titanic, a riportarli
coi piedi per terra giunge una terribile notizia da
Palermo: il giudice Giovanni Falcone, la moglie
Francesca Morvillo e i cinque agenti della scorta
sono rimasti vittime di un attentato mafioso sul-
l’autostrada Punta Raisi-Palermo, in località Ca-
paci. La notizia è stata anticipata tre giorni prima
da una strana agenzia di stampa, “Repubblica”
(vicina all’andreottiano dissidente Vittorio
Sbardella, detto “lo Squalo”): “Manca ancora
qualcosa di drammaticamente straordinario.
Un bel botto esterno, come ai tempi di Moro, a
giustificazione di un voto di emergenza”. Ed è
esattamente ciò che accade. Messo Ko dall’u-
no-due Lima-Falcone, Andreotti si ritira dalla
corsa. La sera dello stesso sabato il suo fedelis-
simo Nino Cristofori chiama concitato il braccio
destro di Occhetto, Claudio Petruccioli: “La
strage è un attacco a Giulio”.
Per il “voto d’emergenza” vaticinato da quella
strana agenzia, non restano che Spadolini e Scal-
faro. De Mita, presidente della Dc priva ormai
del suo segretario e del suo ultimo candidato,
preferirebbe Spadolini: un po’ in funzione an-
ti-Craxi, un po’ perché non ha dimenticato le
parole pesanti scritte da Scalfaro nella relazione
finale della commissione d’inchiesta sull’Irpi-
nia. Ma ad azzoppare il repubblicano ci sono le
ultime notizie dal Palazzo di Giustizia di Milano:
arrestato Giacomo Properzj del Pri, indagato un
altro esponente dell’Edera, Antonio Del Penni-
no. A sbloccare l’impasse provvede il Pds, di-
sposto a votare Scalfaro fin subito.
Nato a Novara nel 1918, figlio di un impiegato
delle Poste di origini calabresi, magistrato, padre
costituente, fedelissimo di De Gasperi e Scelba,
più volte sottosegretario, ministro dell’Interno
nel governo Craxi, lontano dalle correnti, mai
sfiorato da scandali o sospetti, vedovo da molti
anni, sempre accompagnato dalla devota e in-
separabile figlia Marianna, Scalfaro è stato uno
dei critici più inflessibili delle picconate cossi-
ghiane. E infatti Cossiga fa recapitare a tutti i
leader dei partiti un dossier con le fotocopie di
ben 48 interviste di Scalfaro contro di lui. “Se
non l’avessimo votato – dirà Massimo D’Alema
– gli altri prima o poi avrebbero ritirato fuori
Andreotti”. E così, quel 25 maggio, la sedicesima
fumata è bianca: all’ultimo momento Scalfaro ha
pregato il vicepresidente Stefano Rodotà di
prendere il suo posto, per non dover annunciare
la propria elezione. E diventa il nono presidente
della Repubblica con 672 voti su 1002, un’am-
plissima maggioranza di centrosinistra: Dc, Psi,
Psdi, Pli, Pds, Verdi, Radicali, Rete. Il Pri insiste
su Valiani (36), la Lega su Miglio (75), Rifon-
dazione su Volponi (50). Il Msi, che in un pre-
cedente scrutinio ha votato per il giudice Bor-
sellino, opta per Cossiga (63).
Il quale Cossiga verga una nota di benvenuto con
la penna intinta nel fiele: “Scalfaro è un tipico
esponente di una concezione ottocentesca e
compromissoria. Pur essendo notoriamente di
estrema destra, è ossessionato dalla centralità
del Parlamento... Per questo l’hanno votato Pan-
nella e i verdi. Ma pensiamo quanto può sul serio
condividere Pannella del suo rigore morale, ec-
cessivo anche per me...”. L’allusione, oltreché al-
la fama di integrità morale che circonda il suc-
cessore, è a un vecchio episodio del 1950, quan-
do Scalfaro apostrofò in un ristorante romano
una nobildonna, Edith Mingoni Toussan, per
una scollatura troppo generosa (“Non si va al
ristorante in prendisole”), e c’è chi giura che le
assestò addirittura un ceffone. Ma anche al no-
mignolo di “sottosegretario al Pudore” fin dai
tempi in cui Scelba lo nominò viceministro allo
Spettacolo con il compito di censurare e purgare
i copioni teatrali e le sceneggiature cinemato-
grafiche.
Indro Montanelli, che lo stima e gli vuol bene,
ma non risparmia corbellature al suo leggenda-
rio bigottismo, saluta così la sua elezione su Il
Giornale: “Sappiamo di non scoprire la polvere
dicendo che a issare Scalfaro al Quirinale non
sono stati i mille grandi (si fa per dire) elettori di
Montecitorio, ma i mille chili di tritolo (in realtà
200, ndr) che hanno massacrato Falcone, la mo-
glie e il suo seguito. Sono stati gli eventi, non i
partiti a portarvelo. Per la prima volta abbiamo
un presidente che non è figlio della politica –
come la si intende e miserevolmente si pratica in
Italia – ma di qualcosa di più serio: la ragion di
Stato. Se non l’uomo della provvidenza, certo
l’uomo dell’emergenza: un presidente per di-
sgrazia ricevuta”. Poi avrà modo di ammorbi-
dirsi e di apprezzarlo tutte le volte che Scalfaro
darà prova di risolutezza (e anche di sorpren-
dente laicità) in alcuni momenti cruciali.
Il suo primo impegno sul Colle è la scelta del
nuovo premier. Saltato il piano del fu Caf per
Andreotti al Quirinale e Craxi a Palazzo Chigi, si
impone una soluzione equilibrata: con un Dc sul
Colle, il governo tocca a un socialista. Ma quale?
Il 3 giugno il cronista giudiziario del Tg1 Mau-
rizio Losa annuncia che “ora, nell’inchiesta sulle
tangenti, c’è anche il nome di Bettino Craxi”.
Scalfaro telefona al procuratore di Milano, Fran-
cesco Saverio Borrelli: “Craxi è sotto inchiesta?”.
La risposta è no. Ma dopo le elezioni è partita la
richiesta di autorizzazione a procedere per gli ex
sindaci socialisti Tognoli e Pillitteri. Basta leg-
gere i giornali per capire che per Bettino è que-
stione di mesi. Il delfino Claudio Martelli, Guar-
dasigilli uscente, sale al Quirinale con il collega
Vincenzo Scotti, ministro dell’Interno. “Scalfa-
ro – racconterà – mi disse che giudicava legit-
tima la candidatura di Craxi, ma che non avreb-
be potuto designarlo perché contro di lui era in
corso ‘una campagna d’opinione molto forte,
anche se con aspetti diabolici’”. In realtà il Pre-
sidente si è fatto l’idea che Martelli e Scotti, con
quella strana visita ‘in tandem’, si stiano can-
didando per formare il governo in nome del
‘nuovo’ in politica e della lotta alla mafia che li ha
visti impegnati fino al decreto sul 41-bis all’in-
domani di Capaci.
Craxi lo viene a sapere, toglie il saluto al ‘tra-
ditore’ Martelli e consegna a Scalfaro una rosa di
nomi: Amato, De Michelis e Martelli (“in ordine
non solo alfabetico”). Infatti Scalfaro incarica
Giuliano Amato, che in autunno spremerà gli
italiani con una manovra-salasso da 93 mila mi-
liardi di lire e il prelievo forzoso del 6 per mille
sui conti bancari: l’Italia di Tangentopoli è sul-
l’orlo della bancarotta. Craxi, indagato a dicem-
bre, si dimette da segretario del Psi nel gennaio
’93. A febbraio cade anche Martelli, rimpiazzato
da Conso. A marzo Amato e Conso tentano il
colpo di spugna su Tangentopoli, ma Scalfaro
non firma e rimanda il decreto al mittente. Ad
aprile, dopo il referendum che abolisce i fondi
pubblici ai partiti, Amato si dimette, anche per-
ché ha mezzo governo indagato.
I tanti no a Berlusconi
Il 26 aprile Scalfaro incarica un tecnico fuori dai
partiti: il governatore di Bankitalia, Carlo Aze-
glio Ciampi. In estate poi licenzia il direttore del-
le carceri Niccolò Amato, fautore della linea du-
ra sul 41-bis per i mafiosi detenuti, e lo rim-
piazzano con un alfiere della linea morbida,
Adalberto Capriotti. La Procura di Palermo, in-
dagando sulla trattativa Stato-mafia, accuserà
Scalfaro e Conso di avere ceduto alle minacce di
Cosa Nostra. Che infatti, di lì a poco, torna ad
attaccare con le stragi di Firenze, Milano e Ro-
ma. E in novembre ottiene da Conso la revoca
del 41-bis a 343 mafiosi. Il tutto all’indomani del
ricatto paragolpista dei vecchi capi del Sisde, che
tirano il Presidente nello scandalo dei fondi neri.
Lui insorge in tv: “A questo gioco al massacro io
non ci sto: prima hanno provato con le bombe e
ora con il più ignobile degli scandali”.
Insomma, nei primi due anni sul Colle Scalfaro
ne vede di tutti i colori. Poi scende in campo
Berlusconi che – confiderà lui – “con i suoi modi
mi dava un fastidio persino fisico”. Mai un gior-
no di tregua. E lui, il Pertini Bianco, sempre lì,
rigido e stentoreo, la erre moscia, le basette ot-
tocentesche come la sua retorica, il naso e il men-
to convergenti, la lunga sciarpa bianca, il santo
rosario in una mano e la Costituzione nell’altra.
Dice no a Previti ministro della Giustizia del pri-
mo governo Berlusconi (“Qui quel nome non
passa, per senso etico”). Dice no alle elezioni an-
ticipate reclamate dopo la caduta per mano di
Bossi. S’inventa il secondo governo tecnico, af-
fidato a Dini e ingiustamente degradato a “ri-
baltone”. Per sette anni difende il Parlamento e i
giudici, attaccati prima dal solo B., poi anche dal
centrosinistra di D’Alema, che s’imbarca nella
Bicamerale (apertamente osteggiata dal Presi-
dente) mercanteggiando la Costituzione col
Caimano e infine rovesciando il Prof (grazie a
Bertinotti) per prendere il suo posto.
Quello nato nell’ottobre ’98 a guida D’Alema è il
quinto e ultimo governo benedetto da Scalfaro.
Con molta amarezza, perché già si intravede in
lontananza il ritorno del Cavaliere. Nel 1999,
quando conclude la “spaventosa e solitaria tra-
versata” sul Colle, l’Eco n o m i s t lo saluta con que-
sto titolo: “Scalfaro, la bambinaia che non ser-
viva all’Italia”. Invece serviva eccome. Infatti
non sarà né la prima né l’ultima.


MARCO TRAVAGLIO - IL F.Q. 17/4/2013

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