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Dopo un mese di depistaggi politici e mediatici, le motivazioni della condanna definitiva del senatore Silvio Berlusconi a 4 anni per frode fiscale riportano al centro della scena i fatti. Fatti non nuovi, almeno per chi in questi anni ha voluto informarsi e poi ricordare. Ma ormai consacrati da un verdetto irrevocabile che mette la parola fine all’ipocrisia del linguaggio alla vaselina, tutto dubitativi e condizionali. Se dal 1º agosto, dopo la lettura del dispositivo, si poteva affermare senza tema di smentita che il senatore Silvio Berlusconi è tecnicamente un delinquente pregiudicato, da ieri si può anche aggiungere il perché: perché il sistema truffaldino che gli ha consentito per vent’anni di frodare il fisco gonfiando i prezzi dei film acquistati da Mediaset presso le major americane tramite intermediari occulti e fittizi, intascandone le plusvalenze sui conti esteri di società offshore create ad hoc dall’avvocato Mills, derubando il fisco e la sua stessa azienda per centinaia di milioni, anche dopo la quotazione in Borsa, anche mentre sedeva in Parlamento e addirittura a Palazzo Chigi, l’aveva “ideato”, “creato”, “organizzato” e “sviluppato” lui a partire dagli anni 80. Nelle 208 pagine firmate da tutti e cinque i membri del collegio della sezione feriale della Cassazione (non solo dal relatore Amedeo Franco e dal presidente Antonio Esposito, come di solito avviene), ci sono le risposte a tutti e 94 i motivi di ricorso presentati dai legali di B. e dei suoi tre coimputati contro la sentenza d’appello (tutti infondati o menzogneri, dunque respinti). E non sono opinioni o “teoremi” di questo o quel pm più “accanito” o “politicizzato”: sono verità processuali accertate in nome del Popolo Italiano nell’ultimo grado di giudizio, che nessuno potrà mai ribaltare né modificare. Nessun ricorso suppletivo alla Cassazione, nessun pellegrinaggio al santuario di Strasburgo, nessun altro mezzuccio da azzeccagarbugli per camuffare da provvisoria una sentenza definitiva. Per quasi un mese, in tv e sui giornali s’è parlato di tutto, fuorché dei fatti che hanno portato alla condanna. Se si facesse un sondaggio fra i cittadini, ben pochi saprebbero rispondere che il tre volte presidente del Consiglio e sette volte parlamentare B. è stato condannato per una frode fiscale d 300 milioni di euro (la gran parte falcidiata dalle prescrizioni causate da leggi ad personam fatte da lui medesimo, una piccola porzione di 7,3 milioni scampata alla falcidie). Che è molto peggio della semplice evasione fiscale, visto che è un reato aggravato dai mezzi fraudolenti (le decine di società offshore e il sistema di sopravvalutazione dei diritti) creati per truffare lo Stato, cioè tutti i contribuenti onesti. Ma il movente principale del sistema non era l’evasione: le 64 società offshore create da Mills per ordine di B. dagli anni 80, in parte sconosciute ai bilanci consolidati del gruppo, servivano a “mantenere e alimentare illecitamente disponibilità patrimoniali estere, conti correnti intestati ad altre società che erano a loro volta intestate a fiduciarie di Berlusconi”. Un fiume ininterrotto di fondi neri da usare per scopi illeciti e dunque inconfessabili nei libri contabili: corrompere politici, giudici, finanzieri; scalare società in Italia e all’estero in barba alle leggi di Borsa; pagare prestanomi per controllare società e tv oltre i tetti antitrust in Italia e in Spagna. Quando, nel ’94, non c’erano più politici e giudici da corrompere per strappare leggi di favore e violare impunemente le altre, ecco la discesa in campo per fare in prima persona ciò che prima facevano gli altri. Con gran risparmio di denaro, fra l’altro. È con questi fatti che la politica e l’informazione indipendente, casomai esistessero, dovrebbero fare i conti. Finora hanno preferito narrare o commentare le gesta del giudice Esposito: come parla, cosa e con chi mangia, quali giornali legge, che ne pensa di lui Franco Nero.Come se, sputtanando il giudice, si riabilitasse il condannato. E soprattutto come se la sentenza Esposito se la fosse scritta da solo, chiudendo gli altri quattro in un sgabuzzino. Ora, dalle cinque firme in calce alle motivazioni, si scopre che erano tutti d’accordo. Dunque, a dire che B. è colpevole nel processo Mediaset, sono stati in questi dieci anni i due pm che condussero le indagini (De Pasquale e Robledo), il Gup che lo rinviò a giudizio, i tre giudici del Tribunale che lo condannarono, il Pg che chiese la conferma della condanna in appello, i tre giudici d’Appello che la confermarono, il Pg che chiese la conferma della condanna in Cassazione, i cinque giudici che hanno accolto la sua richiesta. In tutto 16 magistrati di sedi, funzioni, correnti le più diverse fra loro. Eppure il ministro Cancellieri, il Pg della Cassazione Ciani e il Csm si sono subito mobilitati per punire Esposito, reo di aver detto in un’intervista che B. è stato condannato perché c’è la prova che è colpevole. E non in base al teorema del “non poteva non sapere”, ma alla prova che sapeva. Si è molto dibattuto sull’esempio fatto dal giudice al giornalista del Mattino per spiegare la differenza fra il “non poteva non sapere” e il “sapeva”: quello del capo che viene informato dai sottoposti Tizio, Caio e da Sempronio dei reati che commettono. Un caso di scuola totalmente avulso dal processo Mediaset (anche se poi il giornalista scorretto ha appiccicato la frase a una domanda mai fatta sul caso B.). Dunque nessuna anticipazione delle motivazioni. Che dicono tutt’altro: B. sapeva non perché i suoi manager gli riferissero i reati che commettevano, ma – ed è infinitamente peggio – perché era lui a sceglierli apposta e poi a dare loro gli ordini e a restare “in continuativo contatto” con loro anche dopo le finte dimissioni dalle cariche societarie. Né avrebbe potuto essere altrimenti, visto che era l’“ideatore” e al contempo il “beneficiario” del sistema dei costi gonfiati e dei fondi neri. Per questo confermava i suoi complici ai loro posti e li promuoveva “in posizioni cruciali” e “strategiche” o li portava addirittura in Parlamento una volta scoperti e condannati. La tesi difensiva della truffa dei manager infedeli ai danni dell’ignaro padrone (che però intascava i frutti dei loro reati) è una baggianata “assolutamente inverosimile”, infatti è stata respinta con perdite e molte risate. Nessuno, nemmeno i noti principi del foro, hanno saputo spiegare perché mai un’azienda che può comprare un film direttamente a 100, dovrebbe farlo acquistare da prestanomi o società occulte (riferibili al padrone) che a ogni passaggio ne gonfiano il prezzo con una miriade di subcontratti, col risultato che alla fine il film costa 180. Se non, appunto, per frodare il fisco. Il succo della sentenza di Cassazione, che spiega il “giro dei diritti” e dei relativi fondi neri come un film horror, fotogramma per fotogramma, da Mills a Craxi, da Berruti a Lorenzano e Agrama, è tutto qui. Punto e fine. Discorso chiuso, nessun quarto grado di giudizio possibile. Se alla giunta delle elezioni e immunità del Senato serviva un parere pro veritate per decidere dal 9 settembre la sorte del delinquente pregiudicato, la sentenza sembra fatta apposta. Lì sono racchiusi i fatti che spazzano via tutte le scemate sull’“agibilità politica” del frodatore. Quanto basterebbe e avanzerebbe al Parlamento di qualunque paese, anche del terzo mondo, per cacciare l’intruso anche senza una legge che lo imponga (come la Severino). Prima ancora di legalità, è una questione politica. Di decenza, anzi di igiene pubblica. Può il Senato ospitare ancora sui propri scranni il colpevole e il beneficiario dell’“ideazione, creazione, organizzazione e sviluppo” di un “meccanismo del giro dei diritti che a distanza di anni continuava a produrre effetti (illeciti) di riduzione fiscale per le aziende” e per lui personalmente? Possono i 320 senatori sedere accanto a un delinquente matricolato? Può il Pd, che ha appena fatto dimettere da ministro Josefa Idem per un’evasione di 3 mila euro in una palestra, restare alleato di un colossale frodatore fiscale? Può il governo Letta, che sta riformando il fisco e manda l’Agenzia delle Entrate a chiudere le gelaterie che evadono 10 euro in tre anni, accettare l’appoggio del partito posseduto da uno così? E può il capo dello Stato insistere pervicacemente a legittimare un simile campione di illegalità? La risposta a tutte le domande è ovvia: no. L’unica agibilità politica da garantire è quella dei cittadini onesti.
di Marco Travaglio, Il Fatto Quotidiano, 30 agosto 2013
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