56 COSTITUZIONALISTI BOCCIANO
LA RIFORMA DELLA COSTITUZIONE BOSCHI-RENZI
RIFORMA DELLA COSTITUZIONE ITALIANA
RIFORMA DELLA COSTITUZIONE ITALIANA
Appello dei costituzionalisti
Di fronte alla prospettiva che la legge costituzionale di
riforma della Costituzione sia sottoposta a referendum nel prossimo autunno, i
sottoscritti, docenti, studiosi e studiose di diritto costituzionale, ritengono
doveroso esprimere alcune valutazioni critiche.
Non siamo fra coloro che indicano questa riforma come
l’anticamera di uno stravolgimento totale dei principi della nostra
Costituzione e di una sorta di nuovo autoritarismo.
Siamo però preoccupati che un processo di riforma, pur
originato da condivisibili intenti di miglioramento della funzionalità delle
nostre istituzioni, si sia tradotto infine, per i contenuti ad esso dati e per
le modalità del suo esame e della sua approvazione parlamentare, nonché della
sua presentazione al pubblico in vista del voto popolare, in una potenziale
fonte di nuove disfunzioni del sistema istituzionale e nell’appannamento di
alcuni dei criteri portanti dell’impianto e dello spirito della Costituzione.
1. Siamo anzitutto preoccupati per il fatto che il
testo della riforma – ascritto ad una iniziativa del Governo – si presenti ora
come risultato raggiunto da una maggioranza (peraltro variabile e ondeggiante)
prevalsa nel voto parlamentare («abbiamo i numeri») anziché come frutto di un
consenso maturato fra le forze politiche; e che ora addirittura la sua
approvazione referendaria sia presentata agli elettori come decisione
determinante ai fini della permanenza o meno in carica di un Governo. La
Costituzione, e così la sua riforma, sono e debbono essere patrimonio comune il
più possibile condiviso, non espressione di un indirizzo di Governo e risultato
del prevalere contingente di alcune forze politiche su altre. La Costituzione
non è una legge qualsiasi, che persegue obiettivi politici contingenti,
legittimamente voluti dalla maggioranza del momento, ma esprime le basi comuni
della convivenza civile e politica. È indubbiamente un prodotto “politico”, ma
non della politica contingente, basata sullo scontro senza quartiere fra
maggioranza e opposizioni del momento. Ecco perché anche il modo in cui si
giunge ad una riforma investe la stessa “credibilità” della Carta
costituzionale e quindi la sua efficacia. Già nel 2001 la riforma del titolo V,
approvata in Parlamento con una ristretta maggioranza, e pur avallata dal
successivo referendum, è stato un errore da molte parti riconosciuto, e si è
dimostrata più fonte di conflitti che di reale miglioramento delle istituzioni.
2. Nel merito, riteniamo che l’obiettivo, pur
largamente condiviso e condivisibile, di un superamento del cosiddetto
bicameralismo perfetto (al quale peraltro sarebbe improprio addebitare la causa
principale delle disfunzioni osservate nel nostro sistema istituzionale), e
dell’attribuzione alla sola Camera dei deputati del compito di dare o revocare
la fiducia al Governo, sia stato perseguito in modo incoerente e sbagliato.
Invece di dare vita ad una seconda Camera che sia reale espressione delle
istituzioni regionali, dotata dei poteri necessari per realizzare un vero
dialogo e confronto fra rappresentanza nazionale e rappresentanze regionali sui
temi che le coinvolgono, si è configurato un Senato estremamente indebolito,
privo delle funzioni essenziali per realizzare un vero regionalismo
cooperativo: esso non avrebbe infatti poteri effettivi nell’approvazione di
molte delle leggi più rilevanti per l’assetto regionalistico, né funzioni che
ne facciano un valido strumento di concertazione fra Stato e Regioni. In esso
non si esprimerebbero le Regioni in quanto tali, ma rappresentanze locali
inevitabilmente articolate in base ad appartenenze politico-partitiche (alcuni
consiglieri regionali eletti – con modalità rinviate peraltro in parte alla
legge ordinaria – anche come senatori, che sommerebbero i due ruoli, e in
Senato voterebbero ciascuno secondo scelte individuali). Ciò peraltro senza
nemmeno riequilibrare dal punto di vista numerico le componenti del Parlamento
in seduta comune, che è chiamato ad eleggere organi di garanzia come il
Presidente della Repubblica e una parte dell’organo di governo della
magistratura: così che queste delicate scelte rischierebbero di ricadere
anch’esse nella sfera di influenza dominante del Governo attraverso il
controllo della propria maggioranza, specie se il sistema di elezione della
Camera fosse improntato (come lo è secondo la legge da poco approvata) a un forte
effetto maggioritario.
3. Ulteriore effetto secondario negativo di questa
riforma del bicameralismo appare la configurazione di una pluralità di
procedimenti legislativi differenziati a seconda delle diverse modalità di
intervento del nuovo Senato (leggi bicamerali, leggi monocamerali ma con
possibilità di emendamenti da parte del Senato, differenziate a seconda che
tali emendamenti possano essere respinti dalla Camera a maggioranza semplice o
a maggioranza assoluta), con rischi di incertezze e conflitti.
4. L’assetto regionale della Repubblica uscirebbe da questa
riforma fortemente indebolito attraverso un riparto di competenze che alle
Regioni toglierebbe quasi ogni spazio di competenza legislativa, facendone
organismi privi di reale autonomia, e senza garantire adeguatamente i loro
poteri e le loro responsabilità anche sul piano finanziario e fiscale (mentre
si lascia intatto l’ordinamento delle sole Regioni speciali). Il dichiarato
intento di ridurre il contenzioso fra Stato e Regioni viene contraddetto perché
non si è preso atto che le radici del contenzioso medesimo non si trovano nei
criteri di ripartizione delle competenze per materia – che non possono mai
essere separate con un taglio netto – ma piuttosto nella mancanza di una
coerente legislazione statale di attuazione: senza dire che il progetto da un
lato pretende di eliminare le competenze concorrenti, dall’altro definisce in
molte materie una competenza «esclusiva» dello Stato riferita però,
ambiguamente, alle sole «disposizioni generali e comuni». Si è rinunciato a
costruire strumenti efficienti di cooperazione fra centro e periferia. Invece
di limitarsi a correggere alcuni specifici errori della riforma del 2001,
promuovendone una migliore attuazione, il nuovo progetto tende sostanzialmente,
a soli quindici anni di distanza, a rovesciarne l’impostazione, assumendo
obiettivi non solo diversi ma opposti a quelli allora perseguiti di
rafforzamento del sistema delle autonomie.
5. Il progetto è mosso anche dal dichiarato intento (espresso
addirittura nel titolo della legge) di contenere i costi di funzionamento delle
istituzioni. Ma il buon funzionamento delle istituzioni non è prima di tutto un
problema di costi legati al numero di persone investite di cariche pubbliche
(costi sui quali invece è giusto intervenire, come solo in parte si è fatto
finora, attraverso la legislazione ordinaria), bensì di equilibrio fra organi
diversi, e di potenziamento, non di indebolimento, delle rappresentanze
elettive. Limitare il numero di senatori a meno di un sesto di quello dei
deputati; sopprimere tutte le Province, anche nelle Regioni più grandi, e
costruire le Città metropolitane come enti eletti in secondo grado, anziché
rivedere e razionalizzare le dimensioni territoriali di tutti gli enti in cui
si articola la Repubblica; non prevedere i modi in cui garantire sedi di
necessario confronto fra istituzioni politiche e rappresentanze sociali dopo la
soppressione del Cnel: questi non sono modi adeguati per garantire la ricchezza
e la vitalità del tessuto democratico del paese, e sembrano invece un modo per
strizzare l’occhio alle posizioni tese a sfiduciare le forme della politica
intesa come luogo di partecipazione dei cittadini all’esercizio dei poteri.
6. Sarebbe ingiusto disconoscere che nel progetto vi siano anche
previsioni normative che meritano di essere guardate con favore: tali la
restrizione del potere del Governo di adottare decreti legge, e la contestuale
previsione di tempi certi per il voto della Camera sui progetti del Governo che
ne caratterizzano l’indirizzo politico; la previsione (che peraltro in alcuni
di noi suscita perplessità) della possibilità di sottoporre in via preventiva
alla Corte costituzionale le leggi elettorali, così che non si rischi di andare
a votare (come è successo nel 2008 e nel 2013) sulla base di una legge
incostituzionale; la promessa di una nuova legge costituzionale (rinviata
peraltro ad un indeterminato futuro) che preveda referendum propositivi e di
indirizzo e altre forme di consultazione popolare.
7. Tuttavia questi aspetti positivi non sono tali da
compensare gli aspetti critici di cui si è detto. Inoltre, se il
referendum fosse indetto – come oggi si prevede – su un unico quesito, di
approvazione o no dell’intera riforma, l’elettore sarebbe costretto ad un voto
unico, su un testo non omogeneo, facendo prevalere, in un senso o nell’altro,
ragioni “politiche” estranee al merito della legge. Diversamente avverrebbe se
si desse la possibilità di votare separatamente sui singoli grandi temi in esso
affrontati (così come se si fosse scomposta la Riforma in più progetti,
approvati dal Parlamento separatamente).
Per tutti i motivi esposti, pur essendo noi convinti
dell’opportunità di interventi riformatori che investano l’attuale
bicameralismo e i rapporti fra Stato e Regioni, l’orientamento che esprimiamo è
contrario, nel merito, a questo testo di riforma.
Aprile 2016
Francesco Amirante, magistrato; Vittorio Angiolini,
Università di Milano Statale; Luca Antonini, Università di Padova; Antonio
Baldassarre, Università LUISS di Roma; Sergio Bartole, Università di Trieste; Ernesto
Bettinelli, Università di Pavia Franco Bile, Magistrato; Paolo Caretti,
Università di Firenze; Lorenza Carlassare, Università di Padova; Francesco
Paolo Casavola, Università di Napoli Federico II; Enzo Cheli, Università di
Firenze; Riccardo Chieppa, Magistrato; Cecilia Corsi, Università di Firenze; Antonio
D’Andrea, Università di Brescia; Ugo De Siervo, Università di Firenze; Mario
Dogliani, Università di Torino; Gianmaria Flick, Università LUISS di Roma; Franco
Gallo, Università LUISS di Roma; Silvio Gambino, Università della Calabria; Mario
Gorlani, Università di Brescia; Stefano Grassi, Università di Firenze; Enrico
Grosso, Università di Torino; Riccardo Guastini, Università di Genova; Giovanni
Guiglia, Università di Verona; Fulco Lanchester, Università di Roma La Sapienza;
Sergio Lariccia, Università di Roma La Sapienza; Donatella Loprieno, Università
della Calabria; Joerg Luther, Università Piemonte orientale; Paolo Maddalena,
Magistrato; Maurizio Malo, Università di Padova; Andrea Manzella, Università
LUISS di Roma; Luigi Mazzella, Avvocato dello Stato; Alessandro Mazzitelli,
Università della Calabria; Stefano Merlini, Università di Firenze; Costantino
Murgia, Università di Cagliari; Guido Neppi Modona, Università di Torino; Walter
Nocito, Università della Calabria; Valerio Onida, Università di Milano Statale;
Saulle Panizza, Università di Pisa; Maurizio Pedrazza Gorlero, Università di
Verona; Barbara Pezzini, Università di Bergamo; Alfonso Quaranta, Magistrato; Saverio
Regasto, Università di Brescia; Giancarlo Rolla, Università di Genova; Roberto
Romboli, Università di Pisa; Claudio Rossano, Università di Roma La Sapienza; Fernando
Santosuosso, Magistrato; Giovanni Tarli Barbieri, Università di Firenze; Roberto
Toniatti, Università di Trento; Romano Vaccarella, Università di Roma La
Sapienza; Filippo Vari, Università Europea di Roma; Luigi Ventura, Università
di Catanzaro; Maria Paola Viviani Schlein, Università dell’Insubria; Roberto
Zaccaria, Università di Firenze; Gustavo Zagrebelsky, Università di Torino.
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