Perché


Si parla molto, finalmente, di cos’è e com’è stata scritta la cosiddetta riforma costituzionale che dovremo approvare o respingere il 4 dicembre
Ma il cosa e il come oscurano il perché. 
Più passano i giorni, più si legge il testo verboso in ostrogoto che dovrebbe sostituire le mirabili sintesi della Carta del 1948, e meno si comprende la finalità dell’operazione che fra due mesi, comunque vada il referendum, lascerà un’Italia spaccata in due, fra chi si riconoscerà nella Costituzione (intatta o modificata che sia) e chi la rinnegherà. 
Infatti l’ultimo refugium peccatorum del Sì, la mossa della disperazione per convincere gli indecisi, è il “meglio che niente”, cioè l’eterno, disgustoso “meno peggio”. 
Che può valere per le elezioni politiche (ogni cinque anni, o anche meno), ma non per la Costituzione destinata a durare decenni (quella americana è lì dal 1789, con appena 27 emendamenti in 227 anni) e soprattutto difficilissima da ricambiare (sono 47 articoli, non un paio)
Dunque chi vota Sì dev’essere assolutamente certo che il cambiamento sia in meglio. Nel caso di un minimo dubbio, meglio votare No o non votare, perché il vero salto nel buio è il Sì.
Perché allora Renzi, Napolitano & C. si sono imbarcati in quest’avventura a dispetto dei santi, col rischio di andare a sbattere (il secondo) o a casa (il primo)? Conosciamo le tesi complottiste, secondo cui la grande finanza mondiale impone alle democrazie più avanzate Costituzioni più autoritarie. Il famigerato memorandum di Jp Morgan del 2013 è effettivamente tanto profetico quanto inquietante: censurava le Costituzioni dei “Paesi del Sud” Europa, “adottate in seguito alla caduta del fascismo”, con “caratteristiche che appaiono inadatte a favorire la maggiore integrazione dell’area Europea” per la loro presunta “influenza socialista”: “leadership debole, Stati centrali deboli rispetto alle regioni, tutela costituzionale dei lavoratori…, diritto di protestare se i cambiamenti sono sgraditi”. E questi, per la banca d’affari criminale che ha patteggiato una multa di 13 miliardi di dollari per i subprime che innescarono la crisi mondiale, non sono normali diritti delle democrazie liberali, ma “un problema” da rimuovere. Ora che Jp Morgan va a braccetto con Renzi, che vorrebbe tanto regalarle Mps e ha già piazzato il vecchio fiancheggiatore Marco Morelli come Ad (a sua volta multato da Bankitalia per le spericolatezze finanziarie che portarono la banca al disastro), viene in mente il vecchio detto andreottiano: “A pensar male si fa peccato, ma ci si azzecca”.Ma Renzi non è l’uomo di Jp Morgan, che fino a tre anni fa non sapeva neppure chi fosse. Renzi non è nemmeno l’uomo di Marchionne, dei petrolieri, della Philip Morris, della Menarini, della Confindustria, della Troika europea e di tutti gli altri potentoni che lo circondano. È questa la principale differenza che lo distingue dal suo maestro B., lui sì rappresentante organico di pezzi importanti di potere, economico (le sue aziende) e criminale (la mafia tramite Dell’Utri, Tangentopoli e la P2 tramite se stesso, la Roma corrotta e corruttrice tramite Previti). 
Renzi, provincialotto di belle speranze sceso nella Capitale con la sua cricchetta di mezzi toscani, è solo un taxi. A disposizione di chi vuole farsi un giro. Non essendo stato eletto, non ha elettori né programmi a cui rispondere. Solo lobby a cui obbedire di volta in volta, a gentile richiesta, in cambio del loro sostegno, ovviamente extraparlamentare. Come extraparlamentari sono i poteri europei che finge di contrastare, ma in realtà asseconda in tutto e per tutto. Vinte le primarie sotto le insegne della rottamazione e del rinnovamento, è diventato in due anni quanto di più vecchio si potesse immaginare: il burattino prêt-à-porter di tutti i poteri, che lo usano finché ne hanno bisogno, pronti a mollarlo al primo raffreddore per scegliersene un altro. Non c’è nessun complotto: solo uno scambio di favori alla luce del sole: quelli lo tengono in piedi, e lui sbaracca la democrazia, cioè quel sistema complesso fatto di elezioni, programmi, dialettica fra maggioranza e opposizione, pesi e contrappesi, regole da rispettare e autorità a cui rendere conto, dove le decisioni sono il distillato di una pluralità di soggetti legittimati dal popolo sovrano.
I veri potenti, dalle loro segrete stanze, perlopiù fuori dall’Italia, sono stufi di fare centinaia di telefonate e decine di riunioni con questo e quello per ottenere ciò che vogliono. Volete mettere la comodità di chiamare uno solo che fa tutto lui, senza il fastidio né la perdita di tempo di convincere gli elettori, il Parlamento, il Quirinale, sempre nella speranza che le opposizioni, i sindacati, la Consulta, la magistratura e la stampa non si mettano di traverso? Se c’è un uomo solo al comando (ovviamente finto), chi comanda davvero fa una sola telefonata e mette d’accordo tutti. Poi, certo, si terranno ancora le elezioni per illudere i cittadini di contare ancora qualcosa: tanto, con la Grande Riforma, il Parlamento sarà quasi tutto nominato da un paio di capi-partito, soprattutto da quello che vince. Ma, chiunque vinca, cambierà poco: come aveva pronosticato un altro grande profeta, Licio Gelli, destra e sinistra saranno più o meno uguali, con programmi talmente vaghi da autorizzare tutto e il contrario di tutto. Gli unici inciampi imprevisti sono i 5Stelle che, per quanti sforzi facciano, non riescono ad autodistruggersi; e un fronte del No che due anni fa trovava cittadinanza su un paio di quotidiani (il Fatto e il manifesto), mentre oggi è in testa ai sondaggi, grazie a migliaia di cittadini d’ogni colore, da destra a sinistra, che si sono svegliati proprio perché hanno capito quel perché.

Marco Travaglio, Il Fatto Quotidiano, 11 Ottobre 2016


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