Il nuovo ministro dell’Istruzione Valeria
Fedeli che impreziosisce il curriculum con una laurea mai presa è la rivincita
degli studenti somari che taroccano le pagelle. Ma soprattutto è la politica
che diventa satira di se medesima ridicolizzandosi in automatico e mettendo in
crisi il ramo dei comici professionisti.
Infatti, l’altra sera a DiMartedi abbiamo
visto Maurizio Crozza impegnarsi a dovere con la new entry Paolo Gentiloni,
superato tuttavia dalla faccia del vero Paolo Gentiloni quando tiene tra le due
dita la famosa campanella del Consiglio dei ministri come fosse la coda di un
topo morto. Così come qualsiasi sketch sugli onorevoli che sparano balle sarà
d’ora in poi, e pensiamo per sempre, sbaragliato dal Matteo Renzi che annuncia
il definitivo, ci mancherebbe, ritiro dalla politica con la sconfitta del Sì. L’esule
natalizio di Pontassieve è il capocomico dell’allegra brigata del me ne vado
anzi resto – dalla Boschi alla Fedeli (sempre lei) allo spassoso deputato
Carbone – che impazza tra gli sghignazzi su radio, tv e social, come neppure
Totò e Alberto Sordi. Gli eroi della cavalcata della risata creano
continuamente nuovi generi. Accademia della Crusca (i simpatici strafalcioni
cult di Di Battista). Horror (la parodia del video notturno del sindaco Raggi
quando con espressione “non aprite quella porta” comunica le dimissioni della
Muraro). Cinepanettone (Gianfranco Fini che ripete “sono un coglione, sono un
coglione” nell’apprendere che la casa di Montecarlo era stata venduta, a sua
insaputa, a una società riconducibile alla consorte Tulliani). Certo, c’è “la politica
che non prova alcuna vergogna a darsi in pasto ai social” (Aldo Grasso), ma la
domanda è: perché questa stessa politica gode così tanto a farsi canzonare, a
diventare zimbello virale, a sputtanarsi in presa diretta? Forse però l’errore
risiede proprio nell’usare categorie valoriali che non funzionano più. Un tempo
(non molto tempo fa) per chiunque svolgesse un incarico pubblico la reputazione
era requisito essenziale. Oggi, come dimostra la campagna forsennata di Donald
Trump, sei considerato dagli elettori non tanto per quello che sei, non tanto
per quello che dici ma per il frastuono che susciti. Parlate male di me ma
parlate di me. E poi non avendo reputazione come puoi temere di perderla? Nella
versione più virtuosa papa Bergoglio docet: puoi predicare come San Francesco,
ma se non mobiliti i media di tutto il mondo, magari recandoti dall’ottico in
Ford Fiesta, ti ascolteranno soltanto gli uccellini. Prendiamo il nuovo premier
italiano. Nel definire (come del resto è) Gentiloni uomo perbene, persona
cortese, per nulla arrogante in realtà lo si condanna in anticipo all’oblio
mediatico. Non fa le corna? Non insulta gli avversari? Non bara sul titolo di
studio? Beh, ragazzi che pizza, che noia, smontiamo le telecamere e andiamo a
farci quattro risate da Gasparri.
Il problema è: viva l’avanspettacolo, ma è
proprio il caso sul Titanic che affonda? Che il presidente appena insediato non
coltivi il senso dell’umorismo si può anche capire dovendo fare i conti con
l’eredità sperperata dal predecessore. Le banche nella tempesta, l’Europa che
non tollera altri deficit di bilancio, la crescita che non c’è, le nuove ondate
di profughi, e solo per citare i dossier impellenti. Il tutto con una
maggioranza macilenta e una prospettiva abbastanza sfigata: togliere le
castagne dal fuoco a Renzi per poi togliersi di torno. Perciò nel governo
fotocopia di Boschi-Lotti ci aspettiamo almeno che Gentiloni difenda la sua
reputazione tenendosi a debita distanza, se non altro, dai falsi annunci e dai
tweet molesti. Se ci riesce, per cortesia, dica sempre la verità, anche se
cruda, agli italiani. Dopo tante frottole si meritano almeno quella. Altrimenti
una risata ci seppellirà.
Antonio Padellaro, Il Fatto Quotidiano, 15 dicembre 2016
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