Ma non è che, niente niente, questi
vogliono la rivoluzione? No, perché ci era stato assicurato che tornava la
Prima Repubblica con i suoi riti democristiani, le sue liturgie bizantine,
all’insegna della decantazione e della “moderazione”. Altro che moderati:
questi sono i più scatenati estremisti, i più sfegatati provocatori che la
storia recente ricordi. Infatti, otto giorni dopo lo tsunami di No che ha
sommerso il governo Renzi e la sua controriforma, hanno raccattato un governo
che va oltre le più rosee aspettative dei “populisti” e “anti-sistema”. Se
Grillo, Salvini e Meloni avessero potuto fare un governo su misura dei propri
interessi elettorali, non ne avrebbero partorito uno migliore. L’Italia del No,
che vale il 60% dei votanti, non esiste. L’establishment, già prima agonizzante
e raso al suolo domenica da quasi due elettori su tre, fa finta di niente e
riesuma fischiettando un Renzi-bis che pare fatto apposta per gettare altra
benzina sul fuoco di un Paese che chiede più partecipazione e riceve in cambio
– se possibile – più restaurazione.
Non ci sono parole per commentare la
promozione agli Esteri di Alfano, noto poliglotta cosmopolita, forse per la sua
esperienza in sequestri di persone di donne e bambine e per meriti acquisiti
sul campo kazako. Quella dell’ex sottosegretario Lotti, il cui curriculum
sfugge a tutti fuorché a Renzi, nel redivivo ministero dello Sport, con
l’aggiunta del Cipe e dell’editoria (fondi pubblici per infrastrutture e
giornali). Quella della Fedeli, ex sindacalista della Cgil Tessili,
all’Istruzione al posto della disastrosa Giannini (che però almeno fa
l’insegnante e magari ci toccherà pure rimpiangerla). E quella della
Finocchiaro, relatrice al Senato della controriforma Boschi appena bocciata dal
popolo, che va alle Riforme come se non c’entrasse niente: un bel ceffone ai 19
milioni di italiani che hanno votato No. Ma il peggio sono alcune conferme.
Anzitutto le tre ministre riscaldate: l’etrusca Boschi, che dopo il doppio
disastro delle sue leggi elettorale e costituzionale e il giuramento di
lasciare la politica in caso di sconfitta referendaria, fa i capricci con
Matteuccio suo e strappa la poltronissima di sottosegretario unico a Palazzo
Chigi; la spensierata Madia, che s’è appena vista bocciare dalla Consulta la
riforma della PA, dunque resta lì; e Fertility Lorenzin, basta-la-parola, che
resta alla cosiddetta Salute. Voucher Poletti è confermato al Lavoro, grazie
agli obbrobri del Jobs Act. Colabrodo Padoan, così brillante con Mps e le altre
banche, resta all’Economia in tempo per la trombatura europea alla sua
Finanziaria.
Attila Galletti è ancora ministro-ossimoro
dell’Ambiente. E Trivella De Vincenti, già vice della Guidi, che nelle
intercettazioni di Potenza lo chiamava “pedina” e “amico del clan”, anzi del
“quartierino” petrolifero e lo accusava di “usare” le sue deleghe per “fare
sempre i fatti suoi”, va per competenza alla Coesione & Mezzogiorno, seduto
sulla torta dei fondi europei. Una compagnia della buona morte che riesce a
schifare persino il noto statista Verdini, ingiustamente escluso dopo tanto impegno
e giustamente tornato all’opposizione.
Come le Politiche 2013 e le Amministrative
2016, neppure il referendum ha insegnato nulla. Lorsignori seguitano a
trafficare sui servizi segreti, la Rai, Mediaset e i soliti affari, a
distribuire poltrone a gente che nessuno eleggerebbe mai neppure sotto tortura,
a dichiarare cose incomprensibili in tv, a giurare con sorrisi ghignanti a
favore di telecamera. Ricordano quelle vecchie nobildonne decadute de La grande
bellezza, che giocano a bridge e a burraco nei loro palazzi sfarzosi e deserti,
ultime vestigia di un mondo che non esiste più. Sono morti, ma non se ne sono
ancora accorti e passano il loro tempo a rinviare il proprio funerale. Come già
fecero rieleggendo Re Giorgio nel 2013 blaterando di grandi riforme che non
fregavano nulla a nessuno. Come rifecero di lì a poco ammucchiandosi tutti
insieme nel governissimo Napolitano-Letta-B. E, quando questo si sfarinò per
una sentenza di frode fiscale, s’inventarono un altro Gattopardo, Renzi,
mandato avanti per non cambiare nulla fingendo di cambiare tutto. Pareva
l’ultimo, invece era il penultimo, infatti ora c’è il prestanome Gentiloni.
Brav’uomo, per carità: ma fallo pure mariuolo.
Ora ci diranno che la colpa è di chi ha
votato No orbando la Nazione dello strepitoso governo Renzi. Se lo pensano
davvero, stiano sereni: quello di Gentiloni è praticamente identico e possono
goderselo ancora un po’. La via maestra sarebbe votare subito, ma non si può. E
non a causa del No, ma dell’irresponsabilità di Renzi, del retrostante
Napolitano e della maggioranza, che scrissero e approvarono l’Italicum solo per
la Camera, ma non per il Senato perché speravano che al referendum gl’italiani
avrebbero rinunciato a eleggerlo. Un presidente degno di questo nome avrebbe
rifiutato di promulgare la legge-truffa. Invece Mattarella la firmò, salvo poi
scoprire che le leggi elettorali dei due rami del Parlamento han da essere
“omogenee”: e pensarci prima? Verrebbe da dire “chi è causa del suo mal pianga
se stesso”, se non fosse che a piangere non sono mai loro, ma sempre noi.
Qualcuno ora ricorda che Paolo Gentiloni Silveri, conte di Filottrano, di
Cingoli e di Macerata, è parente di quel Vincenzo Ottorino Gentiloni che firmò
l’omonimo Patto con Giovanni Giolitti nel 1913 per portargli i voti dei
cattolici svincolati dal Non expedit vaticano e arginare l’avanzata dei
socialisti. Centotré anni dopo, ironia della storia, il conte discendente firma
un altro Patto Gentiloni con Renzi e Mattarella per frenare l’avanzata dei
“populisti”. E non s’accorge che la sta accelerando.
Marco Travaglio, Il Fatto Quotidiano, 13 dicembre 2016
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