Ieri, davanti a Montecitorio, una decina di
energumeni del sedicente gruppo “Forconi 9 Dicembre” hanno bloccato l’ex
deputato forzista Osvaldo Napoli come se dovessero arrestarlo, dopo aver dato
lettura di un frettoloso capo di imputazione. Poi han chiesto ai carabinieri
che presidiano la Camera di ammanettarlo. I militari l’hanno invece liberato.
L’episodio non va enfatizzato più di tanto. Così come non va ingigantita la
rissa al Consiglio comunale di Roma, dove alcuni consiglieri del Pd – tra i
quali la capogruppo Michela De Biase, moglie del ministro Franceschini – hanno
scaricato la consueta carrettata di insulti sulla sindaca Virginia Raggi,
“colpevole” di aver accettato le dimissioni dell’assessore Paola Muraro, come
aveva a suo tempo promesso di fare non appena l’interessata avesse ricevuto un
avviso di garanzia con i capi d’accusa che le contesta la Procura. Anziché
guardare in casa propria e spiegare perché il Pd i suoi inquisiti e imputati
non solo non li rimuove, ma li promuove (De Luca è di nuovo indagato, stavolta
per istigazione al voto di scambio, ma nessuno si sogna di chiederne le
dimissioni), questi signori ancora non si rassegnano di aver perso
rovinosamente le elezioni e ora schiumano di rabbia per il venir meno del loro
bersaglio fisso: un’assessora, dipinta per mesi come un incrocio fra Riina e
Landru, che – ora è confermato – deve rispondere di presunte violazioni
ambientali punibili con una multa di 6 mila euro. E gettano inutile benzina sul
fuoco.
Intanto Debora Serracchiani scoppia in
lacrime in Consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia per gli attacchi
personali subiti, soprattutto sul web, nella lunga campagna elettorale tra
Amministrative e referendum sulle trivelle e sulla Carta. Debora è una politica
appassionata e onesta, che però ha troppo concesso al renzismo, anche a costo
di rinnegare i suoi principi che l’avevano portata (proprio grazie al web) alla
ribalta dopo il famoso sfogo davanti (ironia della sorte) all’allora segretario
Franceschini. Dunque certi attacchi se li è cercati. Ma le sue lacrime sono
sincere e meritano rispetto, anche perché segnalano il punto di non ritorno di
una politica autistica, sull’orlo di una crisi di nervi. Il tutto in un Paese
che i nervi li ha a fior di pelle proprio a causa di questa politica. A furia
di comprimere la partecipazione popolare, di ignorare il voto dei cittadini, di
trafficare nei palazzi per ribaltare i risultati delle urne, di trasformare le
sconfitte in vittorie, anche un popolo cinico, brontolone e tutto sommato
pacifico come il nostro ha perso la pazienza.
Con l’arietta che tira, basta un niente per
far detonare la miscela esplosiva. Asciugate le lacrime, la Serracchiani
dovrebbe volare a Roma per spiegare al partito di cui è vicesegretaria che è
ora di finirla di scherzare col fuoco, e per dissociarsi finalmente, seppur
tardivamente, da una leadership che s’illude di lucrare qualcosa dalla
sconfitta del 4 dicembre, mentre è destinata a raccoglierne altre ancor più
rovinose. L’abbiamo scritto e lo ripetiamo: il governo Gentiloni è una
provocazione a cielo aperto, un ceffone in pieno volto non solo ai 19,5 milioni
di elettori del No, ma anche ai molti che han votato Sì nella speranza (mal
riposta) di un cambiamento purchessia. La Boschi che passa dal giuramento di
ritirarsi alla promozione a numero 2 del governo è un’indecenza che indigna anche
i meno prevenuti. La nomina a ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca
scientifica di Valeria Fedeli, ex sindacalista della Cgil Tessili che non sa
nulla di scuola e tarocca pure il curriculum vuoto per vantare una laurea
inesistente, è un’offesa agli studenti e ricercatori che un curriculum ce
l’hanno davvero, ma devono emigrare per farlo valere perché, diversamente da
lei, non hanno una tessera di partito in tasca. La stessa promozione di
Gentiloni a premier è imbarazzante, visto che l’ultima volta che si sottopose
al voto popolare riuscì ad arrivare terzo su tre alle primarie per il
Campidoglio, strapazzato da Marino (poi eletto e defenestrato davanti a un
notaio) e pure da Sassoli. Senza contare l’ulteriore provocazione del
cosiddetto ministro del Lavoro Giuliano Poletti, che minaccia elezioni
anticipate per cancellare i referendum sociali indetti da Cgil, Fiom e 3,3
milioni di lavoratori contro i voucher, l’abolizione dell’art. 18 e altre
porcate. Se dall’ultimo referendum è uscito un messaggio chiaro, in aggiunta al
No alla controriforma, è questo: i cittadini vogliono contare, infatti il 70%
si è precipitato alle urne per rispondere a un quesito di puro principio e
bocciare una riforma che li avrebbe privati del diritto di scegliersi i senatori.
La risposta degli sconfitti è stata identica a quella che avrebbero dato da
vincitori.
Speriamo che il finto arresto di Napoli sia
un episodio isolato. Ma potrebbe anche essere il prologo di una stagione più
preoccupante e violenta. Una di quelle stagioni – i precedenti storici non
mancano – in cui l’insofferenza popolare viene abilmente infiltrata e usata da
provocatori di professione, che soffiano sul fuoco per spaventare la gente e
bloccare il cambiamento con la vecchia strategia del “destabilizzare per
stabilizzare”. Magari è un allarme eccessivo, ma è meglio lanciarlo per tempo.
Se un Paese impoverito, avvelenato e sfiduciato “sente” che il voto non conta
più nulla, la tentazione di fare da sé con altri mezzi diventa fortissima. E se
i partiti di governo danno prova di tanta irresponsabilità ai limiti
dell’eversione, tocca agli oppositori democratici – 5Stelle e sinistra in
primis – dare prova di responsabilità. Opponendosi con composta intransigenza.
Misurando ogni parola e ogni gesto.
Marco Travaglio, Il Fatto Quotidiano, 15 dicembre 2016
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