No al tribunale della verità

Nel suo articolo sul Corriere della Sera di oggi il presidente dell'Antitrust Giovanni Pitruzzella torna sulla questione della Rete che «aumenta notevolmente le possibilità che siano diffuse notizie false e bufale», essendo Internet «un sistema decentralizzato in cui chiunque può diventare produttore di informazione». Questo, sostiene Pitruzzella, danneggia i cittadini nel loro «diritto a ricevere un'informazione corretta». Di qui la sua idea di una «istituzione specializzata terza e indipendente che rimuova in tempi rapidi i contenuti che sono palesemente falsi e illegali».

A mio avviso, questa impostazione della questione parte da un grave errore, da cui discendono quelli successivi e la drammatica conclusione, cioè la proposta di una sorta di Tribunale della Verità con poteri censori.

L'errore di partenza è pensare che, a causa di Internet, i cittadini oggi siano vittime passive di notizie false più di prima: più cioé di quando l'informazione non era decentralizzata e pochi soggetti (governi ed editori privati) avevano il controllo dell'informazione.

Nell'era dell'informazione esclusivista le notizie - comprese quelle false, che sono sempre state abbondanti e strumentali agli interessi dei governi o dei proprietari dei media - godevano infatti di una forza di impatto e di una capacità persuasiva molto maggiore di qualsiasi bufala online attuale. In altri termini: erano balle come quelle di oggi, ma piú potenti. Perché provenivano da fonti considerate ufficiali.

Io ci sono cresciuto, in quel mondo lì. Anche Pitruzzella, che è pure un po' più anziano di me. Stupisce che non se lo ricordi. Stupisce che non ricordi l'era in cui frasi come "l'ha detto la televisione" o "sta scritto sul giornale" erano l'esibizione di una fonte di certezza. Benché tivù e giornali non siano mai stati pure fonti di verità, ma anche strumenti di interessi politici ed economici. Che non si potevano contraddire, cioè di cui nessuno poteva leggere il controcanto. C'era quella versione lì - o, più spesso, quella omissione lì - e basta. Al massimo si poteva acquistare un giornale diverso per avere una versione diversa, ciò che comunque era sforzo di pochi, mentre il conformismo era del tutto senza sfumature e senza diritto di replica sul medium più facile, diffuso e popolare, la tivù.

Allora la questione non è se oggi circolano più bufale di trent'anni fa ma è se il cittadino-utente ne è più vittima rispetto a trent'anni fa.

E no, non lo è. Per almeno due motivi.

Primo, perché molto più rapida, facile ed economica è la strada per la replica, per trovare il controcanto rispetto alla bufala (o all'omissione). Lo sforzo è minimo, avviene nello stesso medium che diffonde il falso (la Rete), talvolta perfino nei commenti con link al medesimo articolo o comunque a pochi clic di distanza. Prima, invece, pervenire a qualche preziosa forma di debunking di una bufala (di giornale o detta in tivù) esigeva una fatica molto maggiore, ed era infatti prerogativa di pochissimi.

Secondo, prima le persone avevano mediamente meno strumenti di difesa psicologica, erano cioè meno smaliziate e meno diffidenti verso ciò che veniva immesso dai mezzi di comunicazione. Insomma, di fronte alle bufale ci cascavamo molto più facilmente.

E la diffidenza - la sana diffidenza verso ogni informazione - è il principale antidoto a ogni bufala, che sia on line o diffusa in altro modo. La crescita della diffidenza (connessa proprio con la decentralizzazione dell'informazione!) è la migliore notizia degli ultimi anni.

E siamo solo agli inizi: più la Rete, medium recente, uscirà dalla sua fase adolescenziale, più la diffidenza crescerà, più sarà prassi quotidiana di ciascuno imparare a dividere il grano dal loglio.

In altri termini: sì, circolano più balle rispetto a trent'anni fa. È ovvio, dato che è cresciuta in modo esponenziale la massa di informazioni circolanti e la massa di produttori di informazioni. Eppure le bufale sono (e soprattutto saranno) meno pervasive rispetto ad allora (e quindi creano meno conformismo) perché più facilmente contraddicibili e perché la società che le riceve ha (e avrà sempre di più) gli anticorpi per reagire, che invece erano quasi assenti tre decenni fa.

Istituire un "Tribunale della Verità" non è solo un'idea a forte rischio di liberticidio: è anche un sistema che porta a soffocare la nascita e la crescita degli anticorpi, delegando tutto a un ente superiore, riportando i cittadini-utenti a una condizione di minorità e di infanzia mentale (in cui cioè hanno bisogno di un papà che gli dice cos'è verità e che cosa favola).

Tutto questo, per parlare seriamente.

Se invece volessimo fare un po' di (fondata) ironia, verrebbe da chiedersi che cosa rimarrebbe in giro dei giornali e dei tg italiani se il tribunale della verità dovesse agire a 360 gradi, non solo sulla Rete ma su tutto il sistema della comunicazione. Nelle edicole rimarrebbero in vendita giusto i biglietti del tram. In tivù vedremmo solo il monoscopio con l'ora esatta. E nelle stazioni andrebbero censurati anche i cartelloni con gli orari di Trenitalia.

di Alessandro Gilioli

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