Magari è superfluo, ma forse è il caso di precisarlo, visto il precipitoso arrampicarsi dei Macron de noantri sulla Tour Eiffel del vincitore: ragazzi, si è votato in Francia, mica in Italia. Per carità, è comprensibile e umano lo sforzo dei più noti perditori della storia di appropriarsi del successo altrui, però sarebbe il caso di calmarsi. E di riflettere su qualche elementare differenza.
1) Viste le sue performance alle Comunali e al referendum, Renzi non è il Macron italiano, semmai l’Hamon: il leader del Ps (nel Pse col Pd) alle primarie aveva raccolto 1,2 milioni di voti, tanti quanti Matteo due domeniche fa.
2) Macron, dopo 5 anni di governo, ha preso atto del fallimento del Ps che aveva vinto nel 2012 e ha fondato un nuovo movimento. Renzi ha preso in mano il Pd che non aveva vinto nel 2013, l’ha svuotato imponendogli un programma alternativo, è andato al governo senza passare per le urne, ha fallito su quasi tutti i fronti e s’è ripresentato come nuovo, fischiettando. E ha sostituito la doverosa autocritica per i rovesci dell’ultimo anno con le solite scuse puerili. Domenica è riuscito a scrivere che “rosica” perché “Macron è al ballottaggio col 23% e noi stiamo a casa col 41%” (scambiando il referendum rovinosamente perduto per un’elezione politica e il 41% dei Sì per un voto a lui). Ha detto che non abbiamo una legge elettorale per “colpa di chi ha votato No” (confondendo la sua riforma costituzionale bocciata dagli elettori con il suo Italicum bocciato dalla Consulta). E ha aggiunto che invidia la legge elettorale francese: e perché allora non approvò quella, al posto dell’orrido Italicum?
3) Macron è un ex banchiere, cioè un tecnico e un tecnocrate di 39 anni che ha potuto presentarsi come uomo nuovo con un gran colpo di marketing e maquillage che ha cancellato il suo fallimentare quadriennio di consigliere e ministro di Hollande, perché ha lanciato il nuovo marchio En Marche! contro tutti i partiti, compreso il suo. Renzi è un politico di professione senza un mestiere ed era un uomo nuovo di 39 anni quattro anni fa, quando vinse le primarie, andò al governo e trionfò alle Europee col 40,8%; ora è il commissario liquidatore di un partito vecchio di 10 anni che ne cumula due vecchi di decenni.
4) Macron ha stravinto il ballottaggio, ma per dire che ha “sconfitto il populismo” è un po’ presto: è stato votato da due terzi dei due terzi degli aventi diritto al voto; mezza Francia, quella arrabbiata e sfiduciata delle banlieue, dei giovani e degli esclusi, è tutta all’opposizione. Ha regalato a una come la Le Pen il record dei voti (il doppio di quelli di suo padre contro Chirac) o non ha partecipato (primato di astensioni e schede bianche dal 1969). E da oggi è pronta ad allargarsi se lui fallirà: o perché non avrà i numeri per governare da solo (senza partito e senza la sua faccia da copertina, sarà più difficile raccogliere voti alle Legislative di giugno); o perché persevererà diabolicamente nelle politiche di flessibilità che hanno già dannato la falsa sinistra di Hollande.
5) Macron s’è posto al centro e ha cannibalizzato i vecchi partiti che avevano sempre governato, il socialista e il gollista, approfittando dell’estinzione del primo e degli scandali che hanno impallinato il leader del secondo, Fillon; e soprattutto si è giovato della divisione del fronte nemico di questa Europa, che al primo turno ha sfiorato il 50% dei votanti ma era spaccato a metà tra la destra lepenista (21,3) e la sinistra di Mélenchon (19,6), più una serie di partiti minori (intorno al 7%). L’Italia è tutta un’altra storia. Anche qui gli avversari di questa Ue rappresentano circa la metà dei votanti, ma scelgono in gran parte un movimento trasversale e non demonizzabile con accuse di fascismo come i 5Stelle (30% nei sondaggi) e solo in minoranza Salvini&Meloni (15%) e le varie sinistre (5-6%).
6) In Francia il sentimento anti-Ue è meno vasto che in Italia, perché questa Europa si regge sull’asse franco-tedesco. I francesi ne fanno parte, noi no. Perciò Macron ha potuto promettere la massima continuità col sistema attuale e vincere. In Italia chi vuole lasciare le cose come stanno, e cioè Renzi e B., che infatti non hanno mai fatto nulla per modificare lo status quo dei trattati, si travestono da populisti anti-Ue e anti-Merkel, per non perdere milioni di voti, salvo accreditarsi come argini contro il populismo e l’antieuropeismo.
A Parigi chi non voleva tra i piedi la bandiera europea era la Le Pen; a Roma, è Renzi. Che si camuffa da Macron, ma non si sognerebbe mai di far suonare l’Inno alla Gioia prima di quello di Mameli, come ha fatto l’altra sera il neopresidente francese, anteponendolo alla Marsigliese. Agli interessi dell’Italia e di tutti gli altri Paesi esclusi dall’asse franco-tedesco, soprattutto dopo l’uscita della Gran Bretagna che fungeva da contrappeso, sarebbe convenuta la vittoria di un nemico degli attuali assetti europei (meglio Mélenchon della Le Pen, naturalmente): per spaccare il fronte Berlino-Parigi e incunearvisi con nuovi rapporti di forze nel segno della discontinuità. Invece ha vinto l’enfant gâté dell’establishment e delle banche d’affari, che fa esultare i piani alti di Bruxelles, Francoforte, Berlino e ora corre a baciare gli stivali della Merkel per rinsaldare l’Europa a due, con gli Stati del Sud relegati nel ruolo di comparse. Italia compresa. E allora che avranno da ridere e da esultare i Renzi, i Gentiloni, i Mattarella, i Letta, i Prodi, gli Alfano e i B.? Se ne accorgeranno quando torneranno a Bruxelles col cappello in mano a mendicare “flessibilità”, e ne riceveranno le solite pernacchie franco-tedesche. Allora, forse, smetteranno di ridere.
Marco Travaglio, Il Fatto Quotidiano, 9 maggio 2017
Commenti
Posta un commento