Il suicidio Regeni

Quando l’Amministrazione Obama, come rivela il New York Times in un lungo e documentato reportage, consegnò al governo italiano le prove del coinvolgimento del regime di Al-Sisi nell’omicidio di Giulio Regeni, il premier era Matteo Renzi e i ministri degli Esteri e dell’Interno Paolo Gentiloni (oggi a Palazzo Chigi) e Angelino Alfano (ora alla Farnesina). Quindi spetta, nell’ordine, a Renzi, a Gentiloni e ad Alfano il compito di rispondere con la massima sincerità ed esaustività alle domande di uno dei più autorevoli quotidiani del pianeta. Quali prove ricevettero da Washington? Che uso ne fecero? Le trasmisero o no alla Procura di Roma, che continua a brancolare nel buio a causa della finta collaborazione del governo egiziano e – si teme – anche di quello italiano? E che ruolo svolsero i nostri servizi segreti?

Siccome ormai lo scandalo è mondiale e – casomai qualcuno se ne fosse dimenticato – è costato la vita a un cittadino italiano innocente, i magnifici tre non pensino di cavarsela come con i casi Shalabayeva, Consip ed Etruria: silenzi imbarazzati e imbarazzanti, menzogne à gogo anche al Parlamento, evocazioni di improbabili complotti, querele annunciate e mai presentate, rimozioni di capri espiatori o addirittura di testimoni, diversivi e supercazzole nella speranza di far dimenticare tutto a un popolo smemorato e mitridatizzato.

Proprio due estati fa, a Rimini, Renzi si pavoneggiava al Meeting di Cl per essere stato il primo premier occidentale a stringere le mani insanguinate del generale Al-Sisi, il dittatore egiziano che ha rovesciato il presidente democraticamente eletto Mohamed Morsi con un colpo di Stato militare e una feroce repressione degna di Pinochet, nel silenzio complice dell’Occidente (ben felice di aver eliminato i Fratelli Musulmani insediando un regime “laico”). Renzi lo definì “grande statista”, lo elogiò per “il merito di avere ricostruito il Mediterraneo” (addirittura), insomma “un grande leader”, “l’unico che può salvare l’Egitto”, dunque “Italia ed Egitto sono e saranno sempre insieme nella lotta al terrorismo”. Aggiunse: “Sono orgoglioso della nostra amicizia e lo aiuterò a proseguire nella direzione della pace”. Poi passò direttamente al tu, come fra vecchi scout: “La tua guerra è la nostra guerra, la tua stabilità è la nostra stabilità”. Parole che nessun leader occidentale ha mai pronunciato, roba da far impallidire i baciamano di B. a Gheddafi. Dinanzi a un simile zerbino, Al-Sisi si sentì autorizzato a trattare l’Italia come una colonia egiziana, complici due formidabili armi di ricatto.

La prima sono gli interessi miliardari dell’Eni in Egitto. La seconda i rapporti privilegiati del Cairo col capobanda libico Haftar, pedina decisiva nell’eterna emergenza-sbarchi. Così quando Giulio Regeni, a fine gennaio del 2016, fu arrestato e torturato (come migliaia di oppositori) e infine assassinato da uomini in divisa per aver visto e scoperto troppo, il regime ci rifilò una sfilza di “verità” di comodo nella certezza che, dopo le ammuine di rito, l’Italia avrebbe chiuso il caso e riaperto gli affari: l’“incidente stradale”; il misterioso “atto criminale” senza torture; i rapporti di Giulio con fantomatici servizi stranieri; la rapina di due delinquenti comuni (arrestati e poi rilasciati); l’atto terroristico dei Fratelli Musulmani per mettere in cattiva luce quel sant’uomo di Al-Sisi e guastare l’amicizia Italia-Egitto (lo sostenne pure l’ex ambasciatore Antonio Badini in un’incredibile intervista alla genuflessa Unità renziana); il colpo di coda dei vecchi agenti segreti di Morsi, per mettere zizzania tra Roma e il Cairo; le “vite piene di ambiguità” di Regeni e dei vicini di casa, quindi il delitto passionale, magari in un festino gay; la “vendetta personale” (non si sa bene perché).

Mancano solo il suicidio, i marziani e la droga. Infatti ecco pronti cinque predoni che avrebbero agito travestiti da poliziotti, purtroppo tutti uccisi durante l’arresto, col contorno di effetti personali della vittima, compreso l’immancabile hashish. Il tutto dopo una strana “intervista” a Repubblica di Al-Sisi, che prometteva “tutta la verità” e intanto minacciava l’Italia: non si impicci in Libia (“rischiate un’altra Somalia”) e lasci fare a lui che sta lavorando per noi. E il governo italiano, per un anno e mezzo, che fa? “Chiede”, anzi “invoca”, pardon “pretende”, o meglio “esige tutta la verità” e “piena luce”, in un rosario di penultimatum da operetta. “Noi dagli amici vogliamo la verità, sempre, anche quando fa male”, dice subito Renzi, continuando a chiamare “amico” il Pinochet d’Egitto che ci prende in giro. Il deputato Pd Giampaolo Galli si guadagna l’Oscar dell’Idiozia arruolando il corpo del povero Giulio nella campagna elettorale contro il referendum anti-trivelle: “Asteniamoci per Regeni per i Marò”. L’ambasciatore al Cairo viene richiamato solo tre mesi dopo il delitto, e chissà che paura in casa Al-Sisi. Poi l’altro giorno, profittando della distrazione ferragostana, viene rispedito a destinazione come se tutto fosse risolto, mentre a 19 mesi dal delitto ne restano ignoti non solo gli autori, ma pure la dinamica e il movente: tutto, a parte le condizioni del cadavere, che i poveri genitori di Giulio dicono di avere “riconosciuto dalla punta del naso”. Ora si scopre quello che si era sempre saputo: il regime Al-Sisi depistava le indagini per cancellare le proprie impronte e il nostro governo lo sapeva, ma essendo un ostaggio del dittatore s’è voltato dall’altra parte, confidando nella nostra memoria da pesci rossi. Però, una volta tanto, ha fatto male i conti. La famiglia Regeni è viva e battagliera. E ora la stampa americana comincia a fare ciò che i nostri giornaloni non sanno più fare: le domande.
Marco Travaglio, Il Fatto Quotidiano, 17 agosto 2017

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