Siamo rincoglioniti?

È una vergogna che Alessandro Di Battista, non contento di non ricandidarsi al Parlamento per imbarazzare chi ci fa la muffa dagli anni 50, osi pure insultare il valoroso popolo italiano definendolo “strano e rincoglionito”. Come se, per dire, noi italiani fossimo male informati e di memoria corta. O addirittura portati ad affidare la soluzione dei nostri problemi a chi li ha creati. Questi sono luoghi comuni qualunquisti da bar sport che nessun politico, nemmeno di opposizione, deve permettersi di rilanciare nei comizi. Se no poi la gente ci pensa su e magari li prende sul serio. Se 5 milioni di italiani, secondo i sondaggi che lo danno sopra il 15%, non vedono l’ora di rivotare B., mica vorremo insinuare che siano delinquenti o rintronati almeno quanto lui. Sono persone serie e lucide, invece, che vedono in lui l’ultimo epigono della destra storica dei Cavour, Ricasoli, Quintino Sella, Sonnino, Giolitti, Einaudi e De Gasperi. Qualcuno insinua che non sanno o non ricordano, sennò non voterebbero mai per lui, visto che in qualunque Paese basterebbe uno solo dei suoi mille misfatti per catapultarlo fuori dalla vita politica e dal consorzio civile, ma soprattutto in galera. Ma il segreto è proprio quello: l’accumulo. I delitti sono come i debiti: se ne fai pochi e lievi, sei rovinato; se ne fai tanti e gravi, sei uno statista.

Infatti ora le prime pagine dei giornali sono tutte dedicate alle pagliuzze rinvenute col microscopio negli occhi dei suoi avversari (quelli veri, M5S, LeU e persino i suoi rivali nel centrodestra), anziché alle travi che troneggiano stabilmente da decenni negli occhietti del Caimano. Decine di sentenze, tutte disponibili sul web, ci dicono quanto segue (in estrema sintesi, si capisce, perché la biografia criminale integrale del personaggio occuperebbe un paio di Treccani). Nel 1973 B. comprò la sua prima villa, quella di Arcore, raggirando Annamaria Casati Stampa, una povera orfana per giunta assistita da Cesare Previti, pagandole una cifra ridicola, per giunta in azioni di una immobiliare non quotata che non valeva una cicca. Nel 1974 strinse un patto con Cosa Nostra tramite Marcello Dell’Utri e ingaggiò un mafioso doc, Vittorio Mangano, per travestirlo da stalliere e portarselo in casa come guardaspalle e tenerlo lì anche dopo che i carabinieri vennero due volte ad arrestarlo. Nel 1978 si iscrisse a una loggia massonica segreta deviata, la P2, poi sciolta dal Parlamento. Negli anni 80 accumulò un monopolio fuorilegge nella tv commerciale, facendosi poi legalizzare l’illegalità da due decreti Craxi, appena i pretori tentarono di fargli rispettare le regole.

Intanto mise in piedi un intero comparto riservato della Fininvest all’estero, accumulando centinaia di miliardi di lire di fondi neri esentasse su 64 società nei paradisi fiscali, con la consulenza dell’avvocato inglese David Mills. Con quei fondi teneva a libro paga svariati politici (al solo Craxi e solo nel 1991 girò 23 miliardi di lire in Svizzera) e diversi giudici romani che gli garantivano impunità e sentenze à la carte. Nel 1991 scippò a De Benedetti la Mondadori, il primo gruppo editoriale che controllava Repubblica, Espresso, Epoca, Panorama e vari giornali locali, grazie a una sentenza comprata dagli appositi Previti&C.. Nei primi anni 90 la Guardia di Finanza stava per scoprire i suoi reati fiscal-contabili e i suoi manager – ispirati chissà da chi – pagarono quattro mazzette a ufficiali e sottufficiali perché chiudessero un occhio. Poi andò al governo e, siccome stavano per arrestargli il fratello e vari manager per le mazzette alle Fiamme Gialle, varò il decreto Biondi per vietare le manette per corruzione. Siccome poi Mills doveva testimoniare ai processi All Iberian e Gdf, nel 1999 gli ammollò 600 mila dollari in nero perché mentisse ai giudici e – come scrisse lo stesso legale al suo commercialista – lo salvasse “da un mare di guai”.

Dal 2001 al 2006 tornò al governo per farsi solo i cazzi suoi, con una raffica di leggi anti-giudici e pro Mediaset. Ma qualche processo sopravvisse e allora lui, perse le elezioni del 2006, cominciò a comprare senatori (il dipietrista De Gregorio venne via per 3 milioni, di cui 2 in nero cash) per far cadere il secondo governo Prodi, tornare al governo e liquidare le ultime pendenze. Nel 2008 andò al governo per la terza volta e ricominciò. Poi saltò fuori il fiorente import-escort nelle sue varie ville e lui finì nei guai perché almeno una delle bungabunga-girl, Ruby, era minorenne, e lui aveva chiamato in Questura per farla rilasciare dopo un fermo per furto, spacciandola per la nipote di Mubarak. Condannato in tribunale, trovò in appello e in Cassazione giudici abbastanza spiritosi per assolverlo, complice anche la legge Severino che aveva cambiato la concussione. Intanto era così sicuro di essere innocente che iniziò a pagare una trentina di ragazze, temendo che dicessero la verità (di qui i nuovi processi per corruzione giudiziaria). Purtroppo gli andò male con la frode fiscale sui diritti Mediaset (7,2 milioni di euro, a fronte della mega-evasione di 368 milioni di dollari prescritta dalla sua Cirielli). Così, dopo 8 prescrizioni e 5 assoluzioni perché s’era abolito i reati, nel 2013 arrivò la prima condanna definitiva.

Pregiudicato, espulso dal Senato e affidato ai servizi sociali nell’ospizio di Cesano Boscone, col braccio destro Dell’Utri in galera per mafia al posto suo e il braccio sinistro Previti condannato per corruzione giudiziaria e radiato dai pubblici uffici al posto suo, pensava di essere finito. Ma aveva sottovalutato gli odiati “comunisti”, sempre pronti a resuscitarlo. E anche la generosità di centinaia di giornalisti e milioni di italiani, che non sono affatto rincoglioniti. Anzi: sono come lui, o almeno vorrebbero tanto.
Marco Travaglio, Il Fatto Quotidiano  - 9 febbraio 2018

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