Dedicato a chi mette la maglietta senza sapere perché lo fa
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Sotto la maglietta
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Sotto la maglietta
Fra i testimonial in maglietta rossa della campagna lanciata da don Luigi Ciotti, trovo decine di amici che hanno partecipato a tante battaglie del Fatto. E, se hanno aderito all’appello per non dimenticare – come scrive il fondatore del Gruppo Abele e di Libera – “il colore dei vestiti e delle magliette dei bambini che muoiono in mare e che a volte il mare riversa sulle spiagge del Mediterraneo” e “per fermare l’emorragia di umanità”, mi sento solidale con loro. Del resto, il Fatto è stato pressoché l’unico quotidiano a pubblicare in prima pagina fin dal primo giorno la foto choccante dei bambini morti vestiti di rosso. Un’immagine che strideva con le parole disumane e miserabili del cosiddetto ministro Salvini sulla “pacchia” e le “crociere” dei migranti. Se però alcune “magliette rosse” collegano quell’ultimo naufragio alle politiche del governo italiano, avverto un rischio: quello che una bella iniziativa per non dimenticare una tragedia quotidiana che dura da anni diventi non tanto uno strumento di propaganda politica (sempre legittimo), ma un’arma di distrazione di massa dai veri responsabili. Che – se vogliamo provare a ragionare sui fatti, andando oltre le commemorazioni dei defunti e il derby fra tifoserie buoniste e cattiviste – non sono questo o quel governo, ma i trafficanti di esseri umani. Quelli che prelevano i disperati nei villaggi dell’Africa nera e subsahariana, spesso convincendoli a partire con false promesse, li maltrattano durante il viaggio nel deserto, li depredano dei pochi averi o addirittura li costringono a indebitare le proprie famiglie, e gli scafisti che rilevano le carovane in Libia per organizzare le traversate nel Mediterraneo verso l’Italia, dopo avere spogliato i migranti degli ultimi spiccioli.
Parliamo di organizzazioni malavitose gigantesche, potentissime, ricchissime e attrezzatissime, che fanno, disfanno e ricattano i governi locali, dispongono di milizie armate e l’anno scorso, in pochi giorni, riuscirono a organizzare un ponte aereo dal Bangladesh alla Libia per traghettare quasi 10mila cittadini bengalesi da Dacca a Tripoli e poi, via mare, alla Sicilia. Sono loro i responsabili del traffico, degli imbarchi e dei naufragi. Anche di quello che ha commosso il mondo per le foto dei tre bambini vestiti di rosso, che una certa disinformatija alimentata da un’Ong sta provando a imputare al governo italiano e/o a quello di Tripoli. Da quel poco che si sa, quella tragedia con i 114 dispersi è avvenuta a 6 km dalla costa, cioè dentro le acque territoriali della Libia, dove le navi delle Ong non sono mai potute entrare.
E, se l’han fatto, hanno violato il diritto internazionale (o vogliamo tornare alle colonie e ai protettorati di “Tripoli bel suol d’amore”?). E operato assolutamente fuori dal coordinamento della Guardia costiera italiana, che ovviamente non può sconfinare in acque altrui. Insomma, purtroppo esistono anche le tragedie inevitabili, senza colpevoli. A parte appunto gli scafisti, che negli ultimi anni, grazie al progressivo avvicinarsi delle navi delle Ong alle acque territoriali libiche, hanno impiegato natanti sempre più pericolanti, proprio perché sicuri di dover percorrere un tratto di mare molto limitato prima della “consegna” sincronizzata (il “salvataggio” è tutt’altra cosa) del carico umano alle imbarcazioni private. Così, non mettendo più piede in acque internazionali e tantomeno in quelle italiane, gli scafisti hanno ridotto a quasi zero non solo il rischio di (turpe) impresa, ma anche quello giudiziario: se nessuno li vede, li intercetta, li identifica, è impossibile incriminarli e arrestarli. È ciò che segnala da due anni il procuratore di Catania Carmelo Zuccaro, che poi si vede imputare il fallimento delle indagini, come se non fosse stato lui a segnalare al Parlamento il meccanismo infernale che impedisce ai giudici di colpire i trafficanti di esseri umani. Il legame fra alcune Ong e gli scafisti, ormai acclarato e addirittura rivendicato dalle interessate, non è di tipo economico, ma fattuale: le Ong agiscono, anche con le migliori intenzioni, come “pull factor” che rende i viaggi meno costosi e rischiosi, dunque più appetibili e redditizi. E questa non è necessariamente materia penale, perché i reati presuppongono il dolo, cioè l’intenzione di sostenere i trafficanti, che non è il movente delle Ong. Ma, se un fatto non è reato, non vuol dire che non sia vero.
Per questo non Matteo Salvini, ma il suo predecessore Marco Minniti impose alle Ong un codice di condotta che alcune firmarono, altre respinsero con orrore, altre ancora accettarono e poi tradirono. E, come per incanto, le partenze diminuirono, e con esse gli affogati. Quello che molte “magliette rosse”, in buona fede ma vittime di cattiva informazione, non capiscono è che nessuno ha delegato in esclusiva ai libici i salvataggi (quelli veri, dai naufragi) in mare, vietandoli a tutti gli altri. Il governo Conte – al netto delle sparate di Salvini, sempre più spesso zittito dai suoi colleghi Moavero, Toninelli e Trenta – sta tentando di delegare ai libici le operazioni nella loro zona Sar (ricerca e soccorso), fermo restando che tutte le navi (Ong incluse) che trovano profughi su barconi li possono e anzi li devono salvare e tutte le navi militari (in missione per l’Ue o per l’Italia) che contrastano i trafficanti salvano pure i migranti nelle acque di rispettiva competenza (dunque non in quelle libiche). La nuova sfida, difficile e faticosa nel campo minato libico, ma un po’ più praticabile dopo il recente accordicchio al Consiglio d’Europa, è aiutare il governo di Tripoli ad affermare e perimetrare la sua sovranità, unica premessa per operazioni efficaci di controllo del mare e dei flussi.
Ora in Libia premono per partire chi dice 700 mila, chi dice 1 milione di persone, di cui già sappiamo due cose: solo 1 su 10 avrà diritto di asilo in Europa e le altre 9 dovranno (sulla carta) essere rimpatriate; l’Italia non può accogliere 700mila o un milione di nuovi migranti, e nemmeno un quinto di essi, pena conseguenze sociali e politiche che potrebbero addirittura farci rimpiangere Salvini. Indossare magliette rosse è bellissimo: ma chi governa deve anche tentare di risolvere i problemi, e i teorici dell’“accoglienza-e-basta” non hanno mai proposto una soluzione seria e praticabile. Convinti che sia sufficiente lavarsi la coscienza strillando “porti aperti a tutti” e lavarsi le mani dimenticando quel che accade subito dopo: il destino di quei disperati fra le gabbie dei Cie, le grinfie dei ladroni della solidarietà (finta) che intascano 35 euro a migrante in cambio di pasti da fame, le spire della criminalità più o meno organizzata e le zanne dei nuovi schiavisti tipo Rosarno.
Se la storia dei migranti si potesse dividere in un’èra paradisiaca “avanti Salvini” (o Minniti) e in un girone infernale “dopo Salvini” (o Minniti), sarebbe tutto più semplice. Ma i fatti dicono che non è così. Quando le navi delle Ong scorrazzavano nel “Mar West” Mediterraneo e i porti italiani (e solo quelli) erano sempre aperti e tutti, si registrò il triste record di 35mila affogati in 15 anni. I morti cominciarono a calare, e di parecchio, quando Minniti smise di ululare all’egoismo dell’Europa e si rimboccò le maniche: impose quelle regole alle Ong e provò a stabilizzare la Libia, aiutando Tripoli a riaffermare uno straccio di sovranità sul suo territorio e le sue acque. Il governo Conte prosegue su quella strada, vedi la missione di Moavero a Tripoli per rinnovare un patto che era vergognoso col tiranno Gheddafi, ma potrebbe essere proficuo col governo al-Sarraj. L’equazione “più Ong, meno morti” è falsa: è vera invece quella “meno sbarchi, meno morti”. E questa passa da due strettoie obbligate. 1) Un ruolo più attivo e autonomo delle autorità libiche, per terra e per mare, con l’aiuto di Italia e Ue e una stretta vigilanza sui campi profughi spesso ridotti a lager. 2) Una campagna di controinformazione nei paesi di partenza sui rischi che i migranti corrono nell’attuale situazione: come ha scritto Antonio Padellaro, “informiamoli a casa loro” contro le false promesse dei trafficanti. Sarà meno affascinante e consolatorio che indossare una maglietta rossa, ma potrebbe essere persino più utile.
di Marco Travaglio, Il Fatto Quotidiano, 10 luglio 2018
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