Leggete qua: “Noi pensiamo che l’Italia debba porre il veto all’introduzione del Fiscal compact nei trattati e stabilire un percorso a lungo termine… Un accordo di legislatura e in cambio del via libera al ritorno per almeno cinque anni ai criteri di Maastricht con il deficit al 2,9%”.
È il piano B di Savona per l’uscita dall’euro? No. È l’ultimo delirio di Di Maio dal balcone? No. È una diretta Facebook di Salvini imbeccato da Borghi & Bagnai? No.
È un intervento di Matteo Renzi sul Sole 24 Ore di un anno fa, addì 9 luglio 2017. Altro che il deficit-Pil al 2,4 per tre anni deliberato dal governo Conte: lui lo voleva al 2,9% per 5 anni (naturalmente “solo per la riduzione delle tasse”, cioè per fare un altro regalo ai ceti più abbienti). Lo stesso Renzi che ora, completata la metamorfosi in gufo, vaticina “conseguenze devastanti delle scelte di oggi”. Scelte molto più prudenti di quelle che auspicava lui l’anno scorso, avvertendo l’Ue con piglio virile: “Non accetto che l’Italia sia trattata come una studentessa indisciplinata da rimettere in riga… L’avvento scriteriato del Fiscal compact nel 2012 fa del ritorno agli obiettivi di Maastricht (deficit al 3% per avere una crescita intorno al 2%) una sorta di manifesto progressista”. Ora che, con un bel po’ di moderazione in più, i giallo-verdi realizzano ciò che lui cianciava, sono “venditori di fumo” che ci portano al disastro. E sempre viva lo spread, s’intende. Era quasi commovente, ieri, seguire la ola – quella sì organizzata – dei vertici Pd&FI e dei giornaloni al seguito che accompagnava ogni punto in più di spread. Così come i commenti dei mejo editorialisti, affranti per lo “schiaffo all’Europa” e l’abbattimento del totem dell’Uno Virgola Sei Per Cento (mai osservato da nessun governo), ma al contempo arrapatissimi per la draconiana “bocciatura europea” che al momento non è stata neppure minacciata (il commissario Moscovici, anche per non dare sponda a Salvini, s’è fatto più conciliante del solito).
Noi naturalmente non sappiamo come andrà a finire. Se cioè la scommessa da pokeristi del governo giallo-verde di portare al 2,4% la soglia dello 0,8% promessa da Gentiloni ci trascinerà alla bancarotta (come prevedono, anzi auspicano quelli che la sanno lunga). O se ci ritroveremo a dire “tanto rumore per nulla”. O se invece scopriremo che il mix fra reddito di cittadinanza, tagli fiscali e pensioni anticipate, mettendo più soldi nelle tasche di chi le ha vuote, produrrà una ripresa dei consumi e dunque un aumento del Pil e quindi una riduzione del rapporto col deficit. Non lo sappiamo non solo perché capiamo poco di economia.
Ma anche e soprattutto perché finora una scommessa del genere non l’aveva azzardata nessuno. O meglio: tutti i governi degli ultimi 10 anni, a parte Monti, avevano sforato gli impegni con l’Europa (Renzi fece il 3, il 2,6, il 2,5 di deficit-Pil e Gentiloni il 2,4%, contro l’1,8 concordato). Poi avevano ottenuto più “flessibilità”, cioè più debito, dalle gommose autorità Ue. Ma quei miliardi in più li avevano girati alle categorie più abbienti o comunque meno indigenti: banche (una cinquantina di miliardi in 5 anni, di cui 20 solo nel dicembre 2016), proprietari di case (4 miliardi per l’abolizione dell’Imu), imprese (12 miliardi di incentivi per il Jobs Act), lavoratori dipendenti (bonus di 80 euro). Nulla – a parte il mini-reddito di inclusione avviato da Gentiloni – per i 10 milioni di poveri e i 3,5 milioni di precari. Ora il governo Conte – ed è un paradosso, visto che passa per il più a destra della storia repubblicana – sposta il grosso della manovra sulle fasce più deboli: disoccupati, pensionandi, piccole imprese, vittime delle truffe bancarie. E infatti riceve plausi insospettati dalla sinistra meno prevenuta (Stefano Fassina) e persino dai rari uomini liberi del Pd (Michele Emiliano: “È una manovra di sinistra, io al posto loro l’avrei fatta così e mi domando perché non l’abbiamo mai fatta noi del Pd”). Vedremo se la ricetta funzionerà, ma almeno un cambiamento c’è: quello che hanno chiesto il 4 marzo gli elettorati – peraltro molto diversi – di 5Stelle e Lega (cioè il 50% dei votanti, che – stando ai sondaggi – sono ora cresciuti a più del 60%). Anche perché le ricette dei governi degli ultimi 20 anni, che avevano sempre prodotto recessione e/o arricchito chi ha già molto o almeno qualcosa, penalizzando chi non ha nulla, non avevano funzionato.
Magari poi lo spread, ieri salito a quota 267, deludendo chi sperava almeno nel 300, schizzerà a livelli incontrollabili: ma al momento è 50 punti sotto il record di 320 registrato il 29 maggio, dopo che Mattarella aveva rimandato a casa Giuseppe Conte per il caso Savona e incaricato Carlo Cottarelli di salvare l’Italia con un governo senza nemmeno un voto di fiducia (su 945 parlamentari), per tornare a scendere a livelli quasi normali solo quando Conte fu richiamato al Colle e poté finalmente giurare coi suoi ministri (fra cui Savona). Molto dipenderà dal contegno, dalla serietà e dalla prudenza – anche nell’uso delle parole che, come insegna Draghi, possono fare danni incalcolabili – che Di Maio e Salvini dimostreranno nei prossimi giorni. E dalla loro capacità di gestire la vittoria su Tria con equilibrio e saggezza, infondendo fiducia nella bontà delle loro riforme non solo ai mercati e alla Ue, ma anche a tutti i cittadini. Se invece Salvini userà la manovra per aprire la campagna elettorale delle Europee del 2019, cercando la guerra permanente con Bruxelles per gonfiare le vele della destraccia scassatutto, sarà un disastro. E così se Di Maio continuerà con le sguaiataggini come quella inscenata l’altra sera dal balcone di Palazzo Chigi. A proposito, consiglio non richiesto: state lontani dai balconi, portano sfiga.
Marco Travaglio, il Fatto Quodidiano, 29 settembre 2018
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