L’economia lineare capitalista, quella fondata sul paradigma “estrai, produci, consuma, dismetti”, ha operato incessantemente anche a livello sociale per cercare di trattare il lavoratore con la stessa identica logica. Un bene da impiegare quando produttivo e da dismettere a fine vita (lavorativa), godendo del plusvalore generato. Lavoratori ipersfruttati o sottopagati che hanno permesso, grazie a questo plusvalore, l’accumulo di ricchezza entro una piccola enclave umana. 42 multimiliardari possiedono oggi la ricchezza di 3,7 miliardi di persone, che faticano ogni giorno, sottopagate o escluse dal mercato stesso del lavoro, relegate alla sopravvivenza.
Cento anni di lotte sociali e sindacali, di conquiste di diritti, per le donne lavoratrici, le ferie, il salario minimo, hanno saputo contrastare lo sfascio sociale di un’economia che ha scavato a fondo ogni risorsa del pianeta, sottraendoci il diritto alla salute, al godimento dei beni comuni, di aria acqua e suolo incontaminati. Eppure la situazione invece che migliorare, va deteriorandosi nei paesi industrializzati e migliora poco o niente in quelli di nuova industrializzazione. Le nuove generazioni dei paesi ricchi sono spesso sottopagate, poco tutelate, lavorano 10-12 ore, non versano contributi pensionistici, il tutto a beneficio di pochi capi azienda, spesso della generazione dei padri.
Nell’industria e in agricoltura crollano le tutele sindacali, così come nel sud del mondo non trovano spazio nelle fabbriche, lasciando i lavoratori alla totale mercé del management (il Padrone). Interi settori come l’editoria, l’architettura, gli studi di avvocatura, il design, sottopagano i propri collaboratori junior. Articoli pagati 3 euro, 12 ore di lavoro a 350 euro al mese, consulenze a 6,5 euro l’ora nella ricca (per alcuni) Europa. Nemmeno le professioni, un tempo si definivano borghesi, sono state risparmiate dalla deregolamentazione assoluta del mercato del lavoro. E attenzione: i cattivi non sono (solo) le corporation globali. Gli sfruttatori si trovano anche nella la piccola impresa di famiglia della provincia tedesca, belga, italiana. Nelle pmi dei paesi di nuova industrializzazione le tutele sono inesistenti. Se si è donne o madri la possibilità di perdere il lavoro in paesi come Cina o Brasile è elevatissima. L’automazione e digitalizzazione eroderà posti di lavoro, mentre la complessa situazione economica globale potrebbe non garantire il social welfare necessario per una nuova economia circolare. La stessa economia circolare, così come l’Europa dell’industria la intende, non ha le premesse per essere una panacea alla questione lavorativa. Certo migliaia di posti di lavoro saranno creati, nuove figure professionali emergeranno.
Il punto è: che livello di qualità del lavoro verrà offerta a questi lavoratori? Potrà questa nuova visione dell’economia rigenerare la sfera dell’occupazione attraverso una nuova interpretazione della CE e dell’economia in generale? Possono l’ambiente e l’ambientalismo contribuire in questo senso a una rinascita della giustizia sociale miseramente scomparsa tra false emergenze e un consumerismo social sempre più disumano?
Il lavoro dovrebbe essere, come lo era agli occhi di Marx, “manifestazione di libertà”, “oggettivazione/realizzazione del soggetto”, “libertà reale”. In tutte le forme storiche succedutesi, il lavoro in vari casi ha assunto un carattere “repellente”, ha creato scarti sociali (creando anche scarti materiali) e rallentato la fiducia in un futuro migliore, in un giubileo dei popoli. L’emergere di dittatori, nuove destre e populismi in tutto il mondo è una conseguenza anche di questo squilibrio economico e di questa erosione dei diritti dei lavoratori.
Se vogliamo ragionare DAVVERO di economia circolare non dobbiamo prenderci in giro. Nessuna impresa, regione o Stato sarà mai circolare se non darà valore ai suoi lavoratori.
di Emanuele Bompiani, tratto da "Materia rinnovabile"
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