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giorgio.elitropi
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Il governo sembra vacillare ogni giorno e tutto il dibattito si riassume in una domanda: cosa tiene insieme Lega e Cinque Stelle? La risposta, diversamente articolata, ruota sempre intorno a una analisi dell’interesse individuale dei singoli parlamentari (non perdere il seggio), dei leader (massimizzare il proprio potere), dei capi partito (difendere le scelte fatte). Nessuno pensa che la rottura possa essere innescata da una inconciliabile visione del mondo, da qualche divergenza sui valori di fondo, per esempio dal dilemma se sia una legittima politica migratoria tenere 40 persone in mare davanti alla costa o se si tratti di una violazione dei diritti umani. Aver degradato, o almeno depotenziato, la politica dalla difesa dei valori ad analisi costi- benefici implica un’evoluzione notevole e dagli esiti non del tutto esplorati.
Questa è infatti la prima legislatura della “politica del contratto”, per citare il titolo di un libro pubblicato da Donzelli ( La politica e il contratto) che offre un’utile chiave di lettura. L’autore, il giudice di Cassazione Fabrizio Di Marzio, ha firmato vari lavori scientifici con il premier Giuseppe Conte, di cui è amico, e forse anche per questo è uno dei pochi ad aver preso sul serio il contratto di governo come innovazione politica.
La storia della filosofia politica è piena di contratti. Si comincia con quello metaforico di Thomas Hobbes che sottomette gli uomini a un sovrano per sottrarli a uno stato di natura in cui l’assenza di gerarchia tra interessi contrapposti condanna alla violenza. Poi Jean Jacques Rousseau sostituisce al sovrano la volontà popolare alla quale ogni cittadino sceglie di sottomettersi, legittimando così le decisioni prese da altri anche in suo nome. John Rawls ha ispirato il contrattualismo moderno, inserendo un criterio di giustizia nel processo di decisione politico (si valuta ogni scelta da dietro un “velo di ignoranza”, per evitare di essere condizionati dalla propria condizione individuale).
DI MARZIO recupera invece un filosofo meno conosciuto in Italia, David Gautier, per argomentare che qui si parla di un contratto di tipo diverso. Non di un esperimento mentale, ma di un esperimento politico. Che non è affatto analogo ai rodati contratti di coalizione alla tedesca, che presuppongono una condivisione di fondo dei valori e un compromesso sulle politiche in cui declinarli. No, il “contratto per il governo del cambiamento”, sostiene Di Marzio, è una svolta concettuale che risponde a un’esigenza precisa: governare la complessità in un momento in cui non c’è più accordo su nulla, neppure sui diritti fondamentali, sul monopolio legittimo della forza in capo allo Stato (vedi dibattito sulla legittima difesa) o su chi siano i membri della comunità di riferimento (lo scontro sullo ius soli e i diritti ristretti ai migranti). Nell’analisi di Fabrizio Di Marzio il contratto non è un modo per mascherare l’irriducibile diversità di approccio di Lega e Cinque Stelle. Ma uno strumento per riconoscerla e regolarla. Anzi, proprio il disaccordo strutturale determina la premessa per l’accordo, come nel diritto civile.
Nella compravendita di una casa, le due parti hanno obiettivi opposti. Uno vuole disfarsi dell’immobile per avere i soldi, l’altro dei soldi per avere la casa. Il contratto tra le due parti non è un compromesso, ma un ’ intesa che nasce sulla base di esigenze opposte e confliggenti.
Se prendiamo per buona l’analisi di Fabrizio Di Marzio, questo primo anno di governo è stato una continua tensione tra la spinta a riportare la politica sul piano dei valori (il caso Siri, i crocifissi di Salvini) e la rivendicazione di un negoziato costante e brutale, privo di ogni patina retorica (se vuoi le autonomie devi fermare il Tav, quota 100 solo se voti il reddito di cittadinanza). Le nuove pratiche politiche, come il principio maggioritario, il suffragio universale o l’habeas corpus, richiedono decenni di esperimenti prima di consolidarsi.
ORA SIAMO in una fase di transizione. Se il pendolo della coalizione torna verso i valori, la coalizione Lega-Cinque Stelle non ha alternative all’esplosione. Una parte dei vertici M5S invoca proprio la perdita dell’identità originaria come fonte di tutti i problemi. Ma il pendolo può anche completare l’oscillazione in senso opposto: la rivoluzione contrattuale è rimasta incompiuta, un contratto per funzionare deve stabilire anche i modi della sua esecuzione. Certi aspetti, come il comitato di conciliazione per regolare i contrasti tra le due parti, sono rimasti sulla carta.
La posta in gioco in queste settimane, insomma, non è soltanto la sopravvivenza dell’attuale compagine di governo. Ma la traiettoria della politica italiana, incerta se interrompere o completare quel passaggio che Fabrizio Di Marzio ha definito “dalla affermazione dei valori alla negoziazione degli interessi”.
Stefano Feltri, Il Fatto Quotidiano, 2 luglio 2019
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