Non erano necessari i risultati degli ultimi Invalsi per
constatare lo stato di declino del livello di apprendimento dei nostri figli.
Gli insegnanti se ne lamentano ormai da tempo: non leggono, non studiano, non
partecipano, non ascoltano più. I nostri figli fanno fatica a disciplinarsi
nella lenta e rigorosa applicazione allo studio. Preferiscono i pensieri
twitter, la cultura dei social, lo zapping continuo, la connessione perpetua,
lo scivolamento rapido da una informazione all’altra, da un’immagine all’altra.
Su questo giornale poco tempo fa si impugnava la giusta causa della difesa
della storia come disciplina imprescindibile per comprendere il nostro tempo e
allenare il pensiero critico. Il risultato degli Invalsi ci costringe però a
fare un drastico passo indietro. Prima dell’insegnamento della storia è
essenziale educare i nostri figli a farsi allievi. È questo il passaggio antropologico
che oggi sembra mancare. Lo statuto dell’allievo implica lo sforzo di
apprendere quello che si ignora. Questo sforzo viene oggi rigettato in nome di
un accesso spensierato al mondo. Tuttavia, mentre scrivo avverto che il rischio
di una morale paternalista è qui in agguato. Non dovremmo invece vedere in
queste forme di disaffezione allo studio una sorta di appello disperato delle
nuove generazioni alla generazione degli adulti? Non bisognerebbe sempre
provare a ribaltare l’arroganza puberale del rifiuto di condividere la stessa
lingua in una domanda di accesso ad un’altra lingua, ad una lingua più viva
della lingua morta della Scuola? L’inciviltà del discorso del capitalista retta
sulla diffusione di un godimento immediato e dissipativo sembra dominare
incontrastata e rendere il tempo lungo dell’apprendimento insensato. Il punto è
che l’educazione alla lettura che dovrebbe essere alla base di ogni didattica e
che viene prima del giudizio sull’importanza delle discipline (compresa quella
storica) pare oggi un’impresa titanica comequella, per citare una celebre
metafora freudiana, della bonifica olandese delle zone paludose dello
Zuiderzee. È un altro tema assi noto agli insegnanti: il rifiuto della pratica
della lettura. Si tratta a mio giudizio di un sintomo decisivo. Da cosa
dipende? È uno dei problemi di fondo di questa nuova generazione. La presenza
sempre presente della connessione impedisce l’esperienza dell’assenza e del
vuoto che invece è essenziale per la genesi del pensiero. Lo ricorda con efficacia
Bion: il pensiero può sorgere solo sull’orizzonte dell’assenza della Cosa,
sullo sfondo della non-Cosa. Provate a staccare un ragazzo dal suo Iphone o da
un altro dei suoi svariati oggetti tecnologici? Questo distacco viene vissuto
come uno svezzamento brutale che suscita una profonda angoscia di separazione
e, di conseguenza, un rigetto ostinato. Eppure bisogna forzatamente imboccare
questo difficile sentiero per rendere possibile l’esperienza della formazione.
L’educazione alla lettura del libro è la pietra angolare di ogni Scuola. La sua
morte clinica, annunciata con gioia da certi cantori della cultura digitale
sospinta, trascura che senza questa educazione ogni didattica risulterebbe
semplicemente impossibile. Questa educazione dovrebbe essere il gesto fondativo
di una buona Scuola. Il che comporta l’emancipazione da criteri di valutazione
rigidamente quantitativi nei quali ricade fatalmente anche il paradigma degli
Invalsi. L’educazione alla lettura è infatti educazione alla singolarizzazione
divergente del sapere. È il fondamento umanistico irrinunciabile della nostra
cultura che oggi rischiamo di dimenticare attratti dalle illusioni scientiste
che hanno sospinto di fatto la
Scuola verso l’azienda e l’impresa snaturando la sua
vocazione autenticamente formativa. L’importazione di lemmi economicistici
(debiti, crediti, assessment, ecc. ) unita alla colonizzazione della lingua
inglese, non sono sintomi marginali ma rivelano la nostra subordinazione ad una
"neolingua" che ha smarrito ogni spessore enigmatico. Gli insegnanti
dovrebbero invece difendere il carattere epico della parola. Rifiutarsi di
ridurre la sua dimensione allo scambio comunicativo. L’ampiezza del mio
linguaggio, come ricordava Wittgenstein, coincide infatti con l’ampiezza
dell’orizzonte del mio mondo. Le parole portano con sé la Legge dell’uomo; sono luce,
apertura, orizzonte, casa. Se la scuola non recupererà la forza della parola e
la sua Legge, essa resterà mutilata nel suo fondamento. Impresa titanica ma
decisiva in un mondo che disprezza sistematicamente questa Legge insabbiando la
sua vocazione profetica. Ecco perché io sono — anacronisticamente o, se si
preferisce, novecentescamente — tra quelli che credono ancora nel modello
tradizionale della lectio ex-cathedra. È solo la testimonianza dell’insegnante
e della sua parola che può accendere o spegnare il desiderio di sapere negli
allievi. Non c’è educazione alla lettura, non c’è, dunque, educazione in senso
ampio, se non c’è la parola di un maestro. Ecco un’altra semplice verità che
l’iper-cognitivizzazione attuale del sapere rimuove. Bisognerebbe invece non
dimenticarlo mai: «Un maestro, un maestro, il mio regno per un maestro!».
La repubblica, 24 luglio 2019, di Massimo
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