Si pensava che, dopo il notevole contributo offerto ad alcune delle peggiori catastrofi nazionali dell’ultimo trentennio – dal berlusconismo al renzismo al Covid19 – il sindaco di Bergamo Giorgio Gori si sarebbe preso una lunga vacanza dalle esternazioni. Almeno da quelle in cui, da cotanta cattedra, insegna agli altri cosa dovrebbero e non dovrebbero fare. Invece niente: si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare cattivo esempio. Infatti lui continua a pontificare come se niente fosse. Ora, per dire, dopo aver contribuito al fianco dell'innominabile a trascinare il Pd al minimo storico del 18% nel 2018, s’è messo in testa che il partito debba cambiare segretario. Cioè far fuori Zinga che, fingendosi morto, è riuscito nella mission impossible di riportarlo oltre il 20%, malgrado le scissioni di Italia Viva e Azione (detta anche Calenda). O forse proprio per quelle.
Che Gori sia rimasto berlusconiano, cioè renziano, lo dimostra il prudentissimo pigolio con cui commentò l’uscita più forse invereconda (tra le mille) dell’innominabile durante il lockdown, quando il suo spirito guida, grande sponsor della riapertura a fine aprile, cioè di Confindustria, non trovò di meglio che chiederla a nome dei bergamaschi morti nella strage da Covid. Lui, anziché mangiarselo vivo come volevano i parenti delle vittime, balbettò che l’uscita era “poco felice, stonata e fuori luogo”, assicurando subito dopo che l’amico Matteo “voleva sottolineare l’attaccamento al lavoro della gente di Bergamo” e nel “pieno rispetto del dolore di queste province”. Resta da capire perché mai, anziché entrare in Italia Morta, si ostini a restare nel Pd e a strillare perché, anziché con B. e Salvini, governa coi 5Stelle. O meglio, si capisce benissimo: Iv un leader ce l’ha, ma gli mancano gli elettori; il Pd invece gli elettori li ha e, per il leader, lui pensa a se stesso, fra quattro anni quando gli scade il mandato da sindaco, o anche prima. L’età pensionabile, per i politici, è pressoché eterna. E lui ha appena 60 anni, ma ne dimostra molti meno. È come Umberto Agnelli nel ritratto di Fortebraccio:
“Sembra un bambino cresciuto soltanto dal collo ai piedi, la faccia gli è rimasta quella degli omogeneizzati”. Un giovane-vecchio con idee decrepite, che abbraccia sempre fuori tempo massimo: ora, per dire, è blairiano e clintoniano, quando Clinton e Blair nei rispettivi paesi non mettono più il naso fuori di casa. Ergo il sindaco al Plasmon piace molto a Confindustria, che a Bergamo regna e governa in condominio con la Curia: infatti l’anno scorso chi comanda nella città alta e in quella bassa fece sì che la Lega candidasse una scartina per non disturbare la sua rielezione.
L’altro giorno il vicesegretario Orlando nota che il Pd è a 5 punti dalla Lega e, senza le due scissioni, sarebbe pari. Apriti cielo. Siccome i sondaggi dimostrano che fece malissimo l’innominabile nel 2018 a opporsi al governo col M5S, Gori replica al posto degli scissionisti: “Pensa il Psi: se nel ’21 non avesse subito la scissione di Livorno, a quest’ora dove stava”. Una scemenza assoluta: la dannazione scissionista della sinistra italiana la conoscono tutti i progressisti, dunque non Gori, la cui fama lo precede. Negli anni 80 è uno studente craxiano. Il che gli spalanca le porte di Bergamo Tv e poi della Fininvest (che le ingloba): nel 1989, a 29 anni, è capo dei palinsesti di tutte e tre le reti del Biscione, mobilitate l’anno seguente nella campagna pro legge Mammì. Nel ’91, a 31 anni, è direttore di Canale5, dove rimane fino al 2001, salvo due anni a Italia1. Sotto la sua guida, l'ammiraglia berlusconiana si batte come un sol uomo nel ’ 93 contro la regolamentazione degli spot (“Vietato Vietare”). Nel ’94 è il megafono della discesa in campo di B.: dagli spottini pro Forza Italia di Mike, Vianello, Zanicchi& C. ai programmi- manganello Sgarbi quotidiani e Fatti e Misfatti di Liguori, specializzati nel killeraggio dei nemici del capo (Montanelli in primis). Nel ’95 il Canale5 goriano spara a zero contro i referendum per mettere un freno agli spot e un tetto antitrust al gruppo (come ordina la Consulta).
Nel 2001 il marito di Cristina Parodi si mette in proprio e fonda Magnolia, produttrice di format televisivi e fornitrice di Rai, Mediaset, La7 e Sky. Che lascia ai soci nel 2011 per darsi alla politica nel Pd al seguito dell’unico pidino che piace a B.: l’innominabile. È Gori il regista delle prime Leopolde (da solo o in tandem con Martina Mondadori, membro del Cda della casa editrice di famiglia rubata con B. a De Benedetti), dove l’amico Matteo promette di rottamare la vecchia Italia prima di diventarne il principale santo patrono. Nel 2014 viene ricompensato con la candidatura a sindaco della sua Bergamo, che però gli va stretta. Infatti nel 2018 corre per la presidenza della Lombardia e riesce non solo a perdere (contro il centrodestra ci sta), ma pure a farsi quasi doppiare da Attilio Fontana (29% a 49%). E torna a più miti consigli nella città natia. Lì intercetta l’ultima disgrazia: il Covid, dandogli una mano a galoppare col famoso appello (a cena con la moglie) “Bergamo non ti fermare!”, anzi tutti in pizzeria, nei negozi e nei musei (“da riaprire”), contro“un clima di preoccupazione che è andato molto aldilà del necessario”. È il 26 febbraio, tre settimane prima delle colonne di mezzi militari in marcia con centinaia di bare. E stare un po’ zitto?
marco travaglio, il fatto quotidiano, 7 luglio 2020
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