Matti per gli scacchi

 

C’è il campione del mondo in carica, trattato come un dio, e c’è l’impresa dell’italiano capace di strappargli una patta. Ci sono i ragazzi prodigio e le regine della scacchiera. Le Olimpiadi in India, per cominciare

Con queste istantanee su partite, protagonisti e scenari delle Olimpiadi in corso a Chennai, in India, inizia una serie di articoli sugli scacchi che il Foglio pubblicherà ogni venerdì d’agosto. L’autore, il filosofo Massimo Adinolfi, ha scritto fra l’altro “Problemi magnifici. Gli scacchi, la vita e l’animo umano” (Mondadori 2022).

Siamo a metà. Il programma della 44esima edizione delle Olimpiadi di scacchi, in corso di svolgimento a Chennai, in India, prevedeva infatti: 27 luglio, arrivo; 28 luglio, cerimonia di apertura; 29 luglio, primo turno. Poi sei turni fino al bermuda party previsto per il giorno 3, poi un meritato giorno di riposo, ieri, poi si riprende con altri cinque turni di gioco e gran finale con la cerimonia di chiusura, il 9 agosto. All’open partecipano quasi duecento squadre; nel femminile più di centocinquanta: è l’edizione più partecipata della storia, nonostante il frettoloso spostamento di sede da Mosca a Chennai, in India, per via dell’invasione dell’ucraina, e nonostante l’assenza di due delle nazioni favorite, la Russia e la Cina, per il medesimo motivo. Non c’è da meravigliarsi: le storie della politica e dello sport si sono sempre intrecciate fra loro.

Partecipa il campione del mondo in carica, il norvegese Magnus Carlsen, e sui giornali indiani si leggono cronache di questo tipo: il frastuono in sala di colpo è cessato, tutti sono rimasti immobili come statue, ruotando appena gli occhi. Magnus Carlsen ha attraversato quasi di corsa il corridoio affollato, col suo ciuffo arruffato: è stato come quando ai pellegrini nel tempio viene concessa per un breve momento la santa visione. Spettatori, addetti ai lavori, ma anche scacchisti professionisti, gente abituata a giocargli contro: tutti sono rimasti conquistati dalla sua aura. La divinità incedeva senza compiere gesti particolari: non ha alzato le braccia per salutare i devoti, non ha incrociato le mani in segno di gratitudine, non ha sorriso. Si è seduto velocemente sulla sua sedia, o per meglio dire sul suo trono, rispondendo con un mezzo sorriso di circostanza al sorriso dell’avversario, e ha incrociato i pezzi con il Grande maestro Georg Meier, tedesco trapiantato in Uruguay. La partita non è stata affatto facile, e come spesso accade è stato il carisma di Carlsen a battere per primo l’avversario: in un finale pari, Meier ha retto a lungo, la sala poco a poco si è svuotata, e solo dopo un’estenuante sfida di ottanta mosse e oltre cinque ore di gioco Carlsen ha prevalso. Stretta di mano, firma sui formulari e via per un’uscita secondaria senza nulla concedere ai cacciatori di autografi, non un gesto né uno sguardo, ma solo un riflesso lontano della luce impalpabile che emana dalla divinità degli scacchi.


Ma quello era il secondo turno, e io invece vi devo raccontare il terzo, l’impresa memorabile. Prima, però, tocca ricordare alcune cose. Carlsen non è solo il campione del mondo in carica, è anche uno dei più forti giocatori di sempre. Pochi nomi gli possono essere affiancati: per molti, solo quelli dell’americano Bobby Fischer, e dell’orso di Baku, Garry Kasparov. Fare classifiche del genere è difficile, perché nel tempo le cose cambiano: è come chiedersi ancora una volta chi sia stato più forte fra Maradona e Pelé (Alfredo Di Stefano!, protesterà qualcun altro). Per giunta, tra il passato e il presente di mezzo si sono messi i computer, che hanno cambiato non poco l’approccio al gioco (la preparazione, lo studio, l’allenamento, il repertorio), per cui ogni comparazione è arrischiata. Quel che è certo, è che il dominio di Carlsen è almeno pari a quello che Fischer stabilì all’inizio degli anni Settanta, e che Kasparov fece valere per almeno una decina d’anni, finché non decise, quando era ancora il numero 1, di lasciare. Funziona così, infatti, negli scacchi, che a un certo punto il più forte si stufa. Nel caso di Fischer, non direi per la verità che si era stufato di giocare, ma di sicuro, conquistato il titolo mondiale demolendo il russo Boris Spassky (giusto cinquant’anni or sono, di questi tempi: ma ne riparleremo la prossima settimana), Fischer ha pensato di aver dimostrato tutto quello che aveva da dimostrare, e per costringere ancora a sedere davanti a una scacchiera uno con le sue manie di grandezza ci sarebbe voluto come minimo un summit del G7 (ma non l’avevano ancora inventato). Kasparov, invece, era entrato nei quaranta, era ancora al vertice del ranking mondiale ma non più campione del mondo, non aveva ancora molto da chiedere agli scacchi, mentre aveva voglia di fare politica (oggi è uno dei più ostinati oppositori di Putin).

E Carlsen? Carlsen ha conquistato il titolo di campione del mondo nel 2013 contro la leggenda indiana Viswanathan Anand (se quest’anno si gioca in India e l’india, oltre a essere tra le favorite, presenta ben tre squadre, è merito di Vishy, è lui che ha aperto la strada); lo ha sconfitto nuovamente nel match di rivincita, l’anno successivo; ha quindi difeso il titolo altre tre volte: contro il russo di Crimea Karjakin (un tipetto che ve lo raccomando: su Twitter lo trovate tra i più ferventi sostenitori dell’intervento russo in Ucraina), contro l’italo-americano Fabiano Caruana, forse il più squisito prodotto del gioco forgiato dalle chess machines, contro il russo Ian Nepomniachtchi, detto Nepo. Il quale Nepo poche settimane fa ha conquistato daccapo il diritto a sfidarlo, vincendo il Torneo dei candidati, e a quel punto Carlsen ha detto no, basta, mi dedico ad altro. Un altro match in solitaria per quattordici, lunghe partite con davanti sempre solo la faccia di Nepo anche no, grazie.

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Però non ha smesso di giocare. Dopo il gran rifiuto di difendere il titolo mondiale (che sarà dunque conteso dal russo e dal cinese, numero due al mondo, Ding Liren) ha già avuto modo di vincere un supertorneo, prima di partecipare alle Olimpiadi. Dove ha giocato finora cinque partite, vincendone quattro e pareggiandone una soltanto, nel terzo turno. E siamo all’impresa memorabile, che dicevo: ebbene sì, al terzo turno Magnus Carlsen non è andato oltre la patta contro l’italiano Daniele Vocaturo.

Ora non crediate: gli scacchi sono molto diversi dal tiro al piattello. Ma in una cosa i due sport si somigliano: la superiorità del campione non si vede sul singolo lancio, bensì su cento lanci, o cento partite, che il campione imbrocca tutte mentre l’altro ne stecca qualcuna. Ad altissimi livelli, poi, le patte sono all’ordine del giorno. Nella serie Netflix “La Regina degli scacchi” non se ne vede neanche una, per ovvie esigenze di spettacolo, ma nella realtà professionistica capita di frequente. Tutto ciò premesso, la patta di Daniele Vocaturo contro il campione del mondo in carica finirà nei libri di storia (quelli sulla storia degli scacchi in Italia, si intende), insieme alla vittoria di squadra, perché il match contro la Norvegia, numero 3 del tabellone, è finito 3 a 1 per l’italia (gli altri alfieri della spedizione italiana sono i giovanissimi Luca Moroni, Lorenzo Lodici e Francesco Sonis, e il più esperto Sabino Brunello).

Una partita a scacchi non si racconta come un film, però due parole provo ugualmente a dirle: Carlsen, col Nero, ha scelto la Caro-kann (1. e4 c6), Vocaturo ha optato per la variante di cambio (3. exd4). Non è successo gran che: gioco solido, posizionale, cambio delle Donne alla dodicesima mossa e lungo finale dal quale Carlsen non è riuscito a cavare nulla. Nulla di pirotenico, nessuna confusa schermaglia. Chi ha seguito la partita in diretta, spiando timoroso il volto del dio, attendeva il momento in cui avrebbe cominciato ad aumentare la pressione, creando dal nulla piccoli vantaggi da convertire in una vittoria finale, ma quel momento non è mai arrivato: Vocaturo è rimasto sempre “in control”, e mentre la Norvegia franava in terza e quarta scacchiera Carlsen si doveva rassegnare, con molto disappunto, a un risultato di parità. Deludente per lui, esaltante per noi.


Dopo il terzo turno, il torneo degli italiani è proseguito con risultati altalenanti: netta sconfitta contro la fortissima India 2, la seconda formazione schierata dall’india, poi vittoria contro l’uruguay e nuova sconfitta, questa volta di misura, contro la Germania. Al giro di boa siamo trentatatreesimi in classifica, e stessa posizione e stesso ruolino di marcia (quattro vittorie, due sconfitte) ha, in campo femminile, l’italia di Marina Brunello, Olga Zimina, Tea Gueci, Marianna Raccanello ed Elisa Cassi. Comanda per ora l’armenia, nonostante il suo giocatore più rappresentativo, Levon Aronian, sia passato armi e bagagli con gli Stati Uniti d’america. Ma in tema di risultati e performance ce n’è una che spicca su tutte, quella di Gukesh D. come dice la canzone di De Gregori: dodici anni e un cuore pieno di paura? Gukesh D. di anni ne ha sedici, ma di paura neanche un po’. In queste Olimpiadi ha messo in fila la bellezza di sei vittorie consecutive in prima scacchiera, una roba che si vede solo in coincidenza con il passaggio di qualche cometa in una notte di luna piena. Tra le vittime, oltre al nostro Vocaturo, anche nomi illustri come Alexei Shirov, vecchia astutissima volpe, e il compassato Daniel Sargissian. Gukesh D. non è il più giovane grande maestro della storia (l’onore spetta a Karjakin), ma ha mancato il record di soli sedici giorni. In compenso, è attualmente il più giovane nella lista dei super GM (quelli con un punteggio Elo – che è come l’atp del tennis – superiore a 2700), ed è uno spettacolo vederlo giocare: vincere partite compatte come il cemento, scovare sorprendenti risorse tattiche, inventare attacchi brillanti con stupefacente sfrontatezza. Gukesh D. è solo l’ultimo arrivato di una nidiata di giocatori indiani – come Nihal Sarin, o Rameshbabu Praggnanandhaa – che promettono di stravolgere in poco tempo il volto dell’élite mondiale. Con loro c’è Alireza Firouzja, il diciottenne franco-iraniano numero 3 al mondo, assente in queste Olimpiadi, e pochi altri: per il dopo Carlsen, è con loro, e forse con qualche giocatore cinese, che bisognerà fare i conti.

Magnus Carlsen in sala: il frastuono di colpo è cessato, tutti sono rimasti immobili come statue

Émile Sutovksy, il presidente della Fide (la Federazione internazionale di scacchi), ha scomodato un nome illustre: mi sembra di essere tornato a quaranta anni fa, XXX Olimpiade, Manila 1982, quando sulla scena comparve un altro ragazzino terribile, un altro sedicenne, Vladimir Kramnik. Gukesh D. ha già la barbetta sulla pelle olivastra, quello invece era bianco come la luna; questo è corto e scattante, Kramink era un lungagnone allampanato. Ma sulla scacchiera la stessa schiacciante superiorità. Come prima riserva della prima squadra, Kramnik realizzò il mostruoso score di 8,5 punti su 9, nel giorno di chiusura delle Olimpiadi compì 17 anni e si avviò, di lì a qualche anno, a sconfiggere Kasparov succedendogli sul trono mondiale: con le sue sei vittorie di fila, e 100 punti Elo guadagnati in meno di sei mesi (a quei livelli, un’enormità) Gukesh D. sembra essersi posto sulla stessa strada – salvo che, a differenza di Kramnik, i sedici anni li ha da poco compiuti, nel maggio scorso. Arrampicarsi in cima al mondo a una simile velocità dovrebbe procurare stati di euforia incontrollata, e forse qualche capogiro: ambizioso e determinato come pochi, Gukesh D. sembra considerare il suo ruolino di marcia solo come la logica conseguenza del lavoro svolto.

Ma a proposito di capogiri, ogni tanto ne capitano davvero. Dopo aver raccontato di imprese, di talenti e di risultanti impressionanti, e in attesa di celebrare i vincitori delle Olimpiadi la prossima settimana, chiudiamo spigolando tra giocatori meno celebrati: le Olimpiadi sono anche questo, il palcoscenico dove, accanto alle divinità dell’olimpo scacchistico, puoi incontrare onesti spingilegno delle periferie del mondo, che vivono il nobil giuoco come un piacevole passatempo. Terzo turno, quello dell’impresa di Vocaturo. In trentottesima fila, l’estonia (ex Unione Sovietica, dunque un paese scacchisticamente evoluto) deve regolare la pratica Giamaica e lo farà, vincendo nelle prime tre scacchiere, come da pronostico. In quarta scacchiera, l’estone Meelis Kanep sta ancora giocando con un avversario di gran lunga inferiore, un certo Jaden Shaw (circa 500 punti Elo in meno). Kanep, col Nero, ha una Torre di vantaggio, in una posizione dove all’avversario non resta che abbandonare. Il Bianco prova a dare un ultimo scacco, il Nero sposta il Re in g7 e… sviene. Letteralmente. Crolla sul tavolo. Sarà stato il caldo, oppure lo stress, ma Kanep sviene e finisce in ospedale (dove per fortuna si riprenderà). Jaden Shaw rimane allibito, ma invece di reclamare la vittoria offre con grande sportività la patta al capitano della squadra avversaria.

Anche Jaden Shaw deve compiere sedici anni. Non si prevedono risultati mirabolanti per lui, ma si può giocare a scacchi anche per molto meno. A Chennai Jaden si starà divertendo, il suo profilo Instagram è privato ma sono sicuro che ha partecipato al bermuda party, e postato foto. Su chess.com il suo nome è jadern: se vi va, finite le Olimpiadi, fatevi una partita online contro di lui.



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